«Premetto che da quando ho intrapreso questa professione ho sempre sognato ruoli di eroi epici, come, ad esempio, Robin Hood, ma, quando mi è arrivata la proposta di Ridley, ero talmente immerso e concentrato in Insider che inizialmente non ho neanche risposto. È stato proprio Michael Mann che un giorno, entrando in camerino, mentre mi sottoponevo alle due ore di trucco quotidiane, mi ha convinto dicendo: non devi perdere quest’occasione che ti sta offrendo Ridley Scott che è uno dei registi più visionari e importanti. In conclusione, io che di solito sono molto pignolo, leggo la sceneggiatura e ne discuto fino ai minimi dettagli, ho accettato senza nemmeno aver visto il copione, sapendo solo che avrei fatto un generale romano diretto da Ridley Scott».
Proprio grazie a Il gladiatore (Gladiator), a partire dal maggio 2000, il pubblico del mondo intero imparò improvvisamente a conoscerlo come “l’ispanico” Massimo Decimo Meridio, prima benevolo “comandante dell’esercito del Nord” sotto l’illuminata guida dell’imperatore Marco Aurelio (Richard Harris) e successivamente, una volta caduto in disgrazia, scampato alla condanna e venduto come schiavo, glorioso combattente sull’arena del Colosseo per inseguire la personale vendetta contro il nuovo imperatore Commodo (Joaquin Phoenix), che gli aveva nel frattempo sterminato la famiglia: «Il mio gladiatore doveva essere un uomo incattivito e duro, uno che i muscoli se li è fatti sul campo, nelle battaglie, con la vita all’aperto, maneggiando spade pesanti. Niente a che vedere con i muscoli artificiali modellati dagli attrezzi».
Ma l’interprete di quel celebre personaggio cinematografico, «un barbaro del set, una presenza massiccia e magnetica come da tempo non ci capitava di vedere sui palcoscenici di celluloide», da quel momento variamente definito «il Clarke Gable del Pacifico», «l’Humphrey Bogart degli antipodi», «il Robert Mitchum della terra dei canguri», in realtà è nato come Russell Ira Crowe a Wellington (Nuova Zelanda) il 7 aprile 1964 e quindi compie proprio oggi il mezzo secolo, nel periodo in cui sta sbarcando nelle sale di tutto il mondo (in Italia da giovedì 10 aprile) nei panni di uno dei più grandi personaggi delle Sacre Scritture, che dà anche il titolo al film: Noah di Darren Aronofsky, già regista di The Wrestler (2008) e de Il cigno nero (Black Swan, 2010). Davvero niente male: da gladiatore del 180 d.C. a patriarca dell’intera umanità.
Quattordici anni fa la fortunatissima pellicola di Scott – primo vero cult movie del nuovo millennio, cinque premi Oscar (di cui uno per lo stesso Crowe, quale migliore attore protagonista) e mezzo miliardo di dollari di incasso – fece riscoprire un genere cinematografico che si considerava ormai estinto, il cosiddetto peplum (o “sandal movie”, come dicono al di là dell’Atlantico). Vedremo quale sorte toccherà ora al genere biblico (sul grande schermo, si intende) alla luce dell’esito cui andrà incontro la nuova fatica recitativa dell’attore neozelandese di nascita ma cresciuto fin dalla tenera età in Australia (dove possiede un ranch nei pressi di Sidney).
Ai tempi della “grande visione” scottiana, il premio Oscar vinto aveva decisamente fatto lievitare ilcachet del suo protagonista, ponendolo in brevissimo tempo nell’Olimpo dello star systemhollywoodiano: si parlò infatti di un compenso di 15 milioni di dollari per il successivo A Beautiful Mind (2001, Ron Howard) – nel quale il ruolo del matematico schizofrenico e premio Nobel John Forbes Nash gli fruttò anche il Golden Globe per il miglior attore protagonista (categoria film drammatico) – e di 20 milioni per Master & Commander – Sfida ai confini del mare (Master & Commander: the Far Side of the World, 2003, Peter Weir), dove vestì magnificamente gli splendidi, ottocenteschi panni del capitano di vascello Jack Aubrey al comando della HMS “Surprise” che nel 1805 ingaggia una lotta senza quartiere a cavallo tra due oceani – l’Atlantico e il Pacifico – con la napoleonica (e ben più potente) “Acheron”.
Prima di questo decisivo spartiacque della sua carriera, i più lo ricorderanno certamente per altre due intense e notevoli interpretazioni: il rude poliziotto Wendell “Bud” White di L.A. Confidential (1997, Curtis Hanson) e il combattuto ex dirigente Jeffrey Wigand del già citato Insider – Dietro la verità (The Insider, 1999, Michael Mann), dove apparve invecchiato di quasi vent’anni e ingrassato di più di venti chili per esigenze di copione e con il quale ricevette importanti riconoscimenti critici negli Stati Uniti, sfiorando quella statuetta che non gli sarebbe però scappata l’anno successivo. Davanti alle obiezioni di Crowe rispetto all’età e al fisico che lo separavano dal personaggio da interpretare, il grandissimo Mann gli rispose, toccandogli il cuore: «È per quello che c’è qui dentro, non per la tua età, che ti ho voluto».
Per quanto riguarda il poi, come non citare l’altra pellicola girata con Ron Howard, Cinderella Man – Una ragione per lottare (Cinderella Man, 2005), basata sulla storia vera del pugile Jim Braddock durante la Grande depressione degli anni Trenta, e la fruttuosa collaborazione proseguita con Ridley Scott nella seconda metà degli anni Duemila: Un’ottima annata – A Good Year (A Good Year, 2006), al fianco di Marion Cotillard; American Gangster (2007), in cui divide la scena con Denzel Washington; Nessuna verità (Body of Lies, 2008), nel quale interpreta il capo dell’agente CIA Leonardo DiCaprio – che aveva già “sfidato” ai tempi di Pronti a morire (The Quick and the Dead, 1995) di Sam Raimi, prima occasione per farsi notare dalle grandi case hollywoodiane propiziata dalla co-protagonista (e anche co-produttrice del film) Sharon Stone – e infine Robin Hood (2010), ovvero il ruolo che era nei suoi sogni, con Cate Blanchett come Lady Marion Loxley.
Per il resto, de gustibus: a chi scrive piace menzionare perlomeno il fuorilegge Ben Wade di Quel treno per Yuma (3:10 to Yuma, 2007, James Mangold), il giornalista della carta stampata Cal McAffrey in State of Play (2009, Kevin MacDonald) e, soprattutto, l’inflessibile – ma fino a un certo punto… – ispettore Javert ne Les Misérables (2012, Tom Hooper). Ovviamente in attesa di quanto ancora ci potrà e saprà regalare, in questo suo secondo secolo di vita, sia da attore che da regista: è infatti in fase di post-produzione la sua prima prova dietro alla macchina da presa, della quale però non si sa ancora molto, pur essendo data in uscita entro quest’anno. Il titolo? The Water Diviner. Anche qui niente male: un 2014 che lo vedrà passare da Noè a… rabdomante!