Nonostante la successiva intervista distensiva a Repubblica, per gli osservatori resta difficile cambiare idea sull’attacco portato sabato dal ministro dell’Economia in pectore, Giulio Tremonti, al Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi. Troppo importante la sede: la trasferta parigina dell’Aspen Italia (l’esclusivo salotto-think tank personale dell’avvocato valtellinese), seguita da una visita informale all’Eliseo. Troppo recenti gli applausi di tutta l’opinione pubblica italiana e internazionale al “piano Draghi” contro la crisi dei mercati, com’è stato subito ribattezzato il pacchetto di 65 raccomandazioni del Financial Stability Forum, immediatamente fatto proprio da super-ministri e banchieri centrali del G7.
Sono passati appena quindici giorni, ma pare un’eternità: in mezzo, il ciclone elettorale ha sconvolto ulteriormente in Italia i panorami già spazzati da tutte le turbolenze economiche dell’ultimo anno: prima tra tutte quella bancaria-finanziaria e quella energetica e delle materie prime. E il “nuovo Tremonti” (l’autore dell’ormai best-seller “La paura e la speranza”) ha notoriamente idee diverse da Draghi su come fronteggiare quest’emergenza epocale: basta con la “tecnofinanza” che ha pervertito la circolazione della moneta e lo sviluppo del credito lontano dal servizio all’economia reale; e basta con l’ideologia della globalizzazione, della privatizzazione, del “mercato perfetto” come pensiero unico della crescita virtuosa.
Il duello tra Ministro e Governatore – entrambi ingegni economici di pari levatura internazionale – parte certamente da questo “piano nobile”. Ma quando Tremonti riduce sbrigativamente il “piano Draghi” a «un’aspirina», sta quasi sicuramente aggiustando equilibri più concreti con Draghi su una pluralità di livelli. Il primo obiettivo è ricordare al Governatore che era un “civil servant”, direttore generale del Tesoro, quando Tremonti era già ministro economico (alle Finanze, allora separate da Via XX Settembre, nel “Berlusconi I”). Di più: Tremonti era ministro dell’Economia quando, nel dicembre 2005, Draghi fu chiamato dalla Goldman Sachs al vertice Bankitalia, al termine di un bienno drammatico, iniziato con il crack Parmalat e dipanatosi attorno al violento scontro tra Tremonti e il Governatore Antonio Fazio. La nomina di Draghi , preferito a Tommaso Padoa Schioppa, che poteva vantare un curriculum molto più robusto come banchiere centrale e vigilante, maturò attraverso un accordo diretto tra il premier Silvio Berlusconi e il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, sicuramente con il via libera vincolante di Tremonti. Sia sul versante della politica economica, sia su quello dell’alta supervisione sullo strategico settore bancario e assicurativo, è il verosimile messaggio di Tremonti a Draghi, le gerarchie sostanziali sono chiare: tanto più che il “Berlusconi III ” (che è anche un “Tremonti III”) difficilmente avrà le ingenuità o i difetti d’esperienza dei primi due.
Ma c’è forse un ultimo terreno, probabilmente il più interessante, sul quale Tremonti ha inteso subito misurarsi con Draghi: quello della “prossima volta”. La clamorosa vittoria “strutturale” della Lega, di fatto sopravvissuta alla malattia di Umberto Bossi e ai suoi stessi estremismi iniziali e ormai proiettata verso una dimensione “bavarese”, rende non più fantascientifico un suo ulteriore consolidamento come pilastro dello schieramento moderato nel dopo-Berlusconi: e chi se non Tremonti può quanto meno candidarsi a premier per questo centrodestra tra cinque anni? Sull’altro versante la tenuta della leadership di Walter Veltroni nel Pd è tutta da verificare, come, probabilmente, la stessa fisionomia del “contenitore” riformista appena nato. E nessuno può dimenticare che, nella Seconda Repubblica, solo tre tecnocrati (Ciampi e Lamberto Dini, ambedue provenienti da Bankitalia, oltre allo stesso Romano Prodi) hanno interrotto l’egemonia berlusconiana. Draghi, finora in predicato come possibile capo di un possibile governo istituzionale, di larghe intese, “per le riforme”, potrebbe emergere come figura di sintesi e punta di uno schieramento di opposizione al centrodestra in possibile crisi di leadership o di valori programmatici. Sempre che, nel frattempo, all’allievo del Nobel Franco Modigliani non si aprano le porte di qualche “santuario finanziario” internazionale, a cominciare dalla stessa Banca centrale europea.