Nell’intervento al Senato, il presidente del consiglio Mario Monti ha toccato molti aspetti. Su una frase in particolare vale la pena soffermarsi, quella con cui il premier ha spiegato il vero valore della recentissima – e criticatissima – riforma del mercato del lavoro. Queste le parole di Monti: «Sono grato alla Camera e al Senato che hanno aderito tempestivamente alla richiesta di dare l’approvazione finale alla riforma del mercato del lavoro. Anche questo ci ha aiutati a Bruxelles».
Le riforme del governo hanno questo significato, secondo il Bocconiano: servono ad arrivare a Bruxelles con un certo potere contrattuale. Sono munizioni nell’armamentario del governo. Fanno bene al Paese? Sì e no. Dopo lunghi mesi di discussioni e confronti, la riforma Fornero è ancora un oggetto misterioso; non piace a sindacati e Confindustria, non entusiasma i partiti di maggioranza che ormai votano fiducie a raffica turandosi il naso, fa impazzire consulenti aziendali e professionisti che non hanno ancora capito se renderà effettivamente più flessibile il mercato del lavoro o se, al contrario (come sembra ai più), lo ingesserà ulteriormente. Piace però a un certo mondo accademico e soprattutto alla troika Napolitano-Monti-Fornero; dunque è diventata legge.
Ma se non ci fosse stato l’aut-aut del premier, la riforma sarebbe ancora in alto mare. Una ventina di giorni fa Monti disse che senza la nuova legge non ci saremmo potuti presentare a Bruxelles con le carte in regola. Sotto il peso di questo avvertimento, il Parlamento ha predisposto un calendario blindato e licenziato le norme. Il Bocconiano è giunto a Bruxelles, ha messo la legge sul tavolo, ha detto che «l’Italia fa il suo dovere» al contrario di altri, e ha preso parte alla trattativa. L’esito non è stato felicissimo, ma Monti ha dato l’idea di essere uno che tratta, che conta, che non si può ignorare al momento di decidere.
I sacrifici degli italiani sono sempre più merce di scambio. L’Europa sta assomigliando sempre più a un mercato arabo dove vince chi resiste più a lungo nelle contrattazioni. Eurobond, fondi salvastati, scudi anti-spread, aiuti di stato, prestiti straordinari: ecco i beni esposti al suk di Bruxelles. Il tecnogoverno cerca di battere i pugni sul tavolo degli accordi, e con il pugno batte la cartellina zeppa di compiti ben fatti.
Soffrire a Roma per strappare qualcosa a Bruxelles (cioè, in sostanza, a Berlino): questa è la prospettiva. Si taglia in Italia per poter incamerare qualcosa in Europa. Il teatro principale è quello continentale, non quello italiano. Sempre che i mercati finanziari e la speculazione internazionale se ne stiano tranquilli: diversamente non c’è alternativa a ulteriori sacrifici. L’aumento dell’Iva è dietro l’angolo, per nulla scongiurato da una «spending review» dai contorni ancora poco chiari, dall’importo nebuloso, ma che presenta un aspetto assolutamente certo: sarà contrastata da ogni più piccolo anfratto del settore pubblico.
Quando arrivò Monti, ci si chiedeva come si sarebbero comportati i partiti nell’epoca di un governo tecnico che di fatto li esautorava dall’azione politica. Le elezioni amministrative hanno gonfiato le vele dell’antipolitica. Ora, dopo il vertice di Bruxelles, con Monti blindato da Napolitano fino a primavera e le continue minacce di catastrofi, anche l’antipolitica deve cedere il passo a un nuovo potere: quello delle euroburocrazie. La politica nazionale, vecchia e nuova, sarà sempre più chiamata a ratificare decisioni prese altrove.