Tito Boeri colpisce ancora. In una recente intervista a Il Corriere della Sera (in evidente risposta a quella un po’ piccata del ministro Giuliano Poletti che lo aveva invitato a stare al suo posto), l’onnipresente presidente dell’Inps è tornato a rivendicare dal Governo l’introduzione della flessibilità del pensionamento, fino a tre anni prima dell’età legale con una penalizzazione del 3% per ogni anno di anticipo. Per chi scrive restano incomprensibili le ragioni di tanta insistenza e soprattutto non sembrano utili a nessuno le misure richieste. Un conto è porsi il problema di chi perde il lavoro in età ormai prossima alla soglia della quiescenza; un altro quello di consentire un’uscita anticipata pure a chi il lavoro continua ad averlo. Nel primo caso non è detto che la risposta migliore sia sempre e comunque l’accesso alla pensione, quanto piuttosto – in tale direzione si muove la filosofia del Jobs Act – quella dell’intervento di uno specifico ammortizzatore sociale, magari di nuovo conio come gli istituendi fondi di solidarietà. Nel secondo caso, la proposta di Boeri finirebbe per ripristinare una sorta di pensionamento di anzianità, sia pure penalizzato da un disincentivo. A quale scopo? Ai lavoratori che sono ormai prossimi al pensionamento servirebbe di più avvalersi di una delle opzioni contenute nel pdl a prima firma Cesare Damiano: ovvero la possibilità di ritirarsi dal lavoro con 41 anni di anzianità contributiva a prescindere dall’età anagrafica e senza l’applicazione dell’aggancio automatico all’attesa di vita. Le attuali coorti di pensionandi maturano, normalmente, soprattutto se si tratta di uomini, il requisito contributivo previsto prima di aver compiuto 63 anni di età, per cui l’introduzione di tale anticipazione anagrafica non li agevolerebbe particolarmente.
Stando ai dati sarebbe utile soltanto alle lavoratrici che – disponendo spesso di una storia contributiva inferiore ai 41 anni – devono attendere l’età di vecchiaia. Se è così basterebbe, allora, circoscrivere la possibilità dell’anticipo alle sole lavoratrici, magari a quelle che hanno avuto dei figli (come è stato fatto in Germania in relazione ai figli avuti prima del 1992), incrementando gradualmente i requisiti anagrafici richiesti per la cosiddetta Opzione donna, che, da transitoria, potrebbe diventare strutturale almeno per un certo arco di tempo.
Più in generale, restiamo dell’opinione più volte espressa che, tanto nel progetto Damiano, quanto nel pacchetto Inps e ancor più nelle continue lamentazioni per la sorte dei cosiddetti esodati, gli interessi dei giovani non siano affatto tenuti in considerazione. Nei loro confronti i “padroni del vapore” del nostro futuro pensionistico pensano di cavarsela instillando il sottile veleno dell’odio generazionale, promettendo tagli vistosi alle pensioni in essere più elevate e agitando, a mo’ di una clava, la minaccia del ricalcolo contributivo (nonostante ormai sia stata accertata, in una recente audizione dell’Inps in commissione Lavoro della Camera, la sua pratica impossibilità).
Per fortuna, tra le tante iniziative che bollono nel pentolone delle pensioni, alcune cercano di dare una sbirciata al futuro. È il caso, ad esempio, del pdl a prima firma Gnecchi (tra i firmatari, a dire il vero, c’è anche il presidente Damiano, anche se di questa proposta non parla mai nelle sue apparizioni televisive) che si sforza di immaginare un sistema pensionistico per il mercato del lavoro di oggi e di domani.
Leggiamo dalla relazione: “Con la presente proposta di legge intendiamo portare il livello delle aliquote contributive, per tutte le tipologie di lavoro, al 28 per cento, per due terzi a carico del datore di lavoro e per un terzo a carico del lavoratore o prestatore d’opera, con una riduzione, per i lavoratori dipendenti, pari all’1 per cento ogni due anni a partire dalla data di entrata in vigore della legge […]. Per garantire un tasso di sostituzione non inferiore al 60 per cento si propone di istituire – prosegue la relazione – una pensione di base, finanziata dalla fiscalità generale, del valore di 442 euro (rivalutabile secondo le disposizioni vigenti sull’attuale assegno sociale), aggiuntiva rispetto a quella maturata dal lavoratore, sia esso dipendente, autonomo o parasubordinato. Tale pensione è riconosciuta ai lavoratori e alle lavoratrici, al compimento del sessantacinquesimo anno di età, purché abbiano versato almeno quindici anni di contribuzione effettiva”.
Nel pdl Gnecchi il contributo unificato (del 28%) è applicato, a decorrere dall’entrata in vigore della legge, a tutti i lavoratori dipendenti, autonomi e parasubordinati, iscritti alla Gestione separata in via esclusiva. Mentre, a decorrere dal 1° gennaio 2015 (il pdl è stato presentato nel 2014) viene istituita la pensione di base finanziata dalla fiscalità generale, di importo pari all’assegno sociale. Ai lavoratori iscritti per la prima volta a forme di previdenza successivamente al 31 dicembre 1995 e iscritti alla Gestione separata si applicano meccanismi differenziati di calcolo della pensione, articolati secondo l’anzianità di contribuzione effettiva, nella forma di una maggiorazione fino a un massimo del 20% dei coefficienti di trasformazione applicabili ovvero di un incremento dell’aliquota di computo, entro il limite applicabile ai lavoratori dipendenti. Una norma di delega, poi, dovrebbe estendere il contributo unificato nonché la pensione di base finanziata dalla fiscalità generale e la rivalutazione del montante contributivo anche alle Casse dei liberi professionisti.
La proposta, nel suo complesso, ricorda quella che, in un articolo su queste pagine, chi scrive ha definito “un Jobs Act per le pensioni” (dove veniva ripreso un progetto di legge – AC 1299 – presentato nella passata legislatura). Vi sono tuttavia alcuni aspetti che è opportuno approfondire. Nella mia proposta la riforma doveva valere per i nuovi occupati: applicarla (pro rata e come?) a tutti i lavoratori non solo sarebbe un’operazione troppo onerosa (peraltro la copertura individuata è troppo generica e debole), ma anche inutile, perché la generalità dei lavoratori occupati ha una tutela previdenziale (gli iscritti alla Gestione separata usufruirebbero della rivalutazione del 20% del montante).
Inoltre, l’aliquota del 28% è troppo elevata, soprattutto per i lavoratori autonomi. Poi, se si cumula la pensione contributiva alla pensione di base a carico della fiscalità generale, si rischia di determinare un tasso di sostituzione più elevato di quello di oggi. Nella mia proposta, applicabile solo ai nuovi occupati, l’aliquota doveva essere pari al 25-26%. Analoghe considerazioni, a proposito del pdl Gnecchi, valgono per i liberi professionisti: portare l’aliquota contributiva al 28% significa raddoppiare l’attuale prelievo contributivo (aggiungendo in più la pensione di base).
Per concludere ecco ricordati – allo scopo di individuare le differenze con pdl Gnecchi – i capisaldi della mia proposta: 1) le nuove regole dovrebbero valere solo per i nuovi occupati (quindi per i giovani); 2) i versamenti sarebbero effettuati sulla base di un’aliquota uguale – e pari al 25-26 % – per dipendenti, autonomi e parasubordinati (si può valutare una certa gradualità nell’operazione) dando luogo a una pensione obbligatoria di natura contributiva; 3) sarebbe istituita per questi lavoratori (più o meno 400mila all’anno) un trattamento di base, ragguagliato all’importo dell’assegno sociale e finanziato dalla fiscalità generale che faccia da zoccolo della pensione contributiva; 4) è prevista la rivalutazione del montante per i parasubordinati già iscritti alla Gestione separata al fine di rafforzarne la posizione contributiva, dal momento che a loro non si applicano le nuove regole; 5) per quanto riguarda il finanziamento della pensione complementare sarebbe consentito l’opting out (ovvero la possibilità di scorporare e utilizzare diversamente in modo volontario con il relativo versamento del corrispettivo in una forma di previdenza complementare) di alcuni punti di aliquota contributiva obbligatoria, nei termini e con le cautele ipotizzate dalla riforma Fornero del 2011.