“Attacco di cuore sul campo di gioco”, il titolone sul Sun di ieri mattina dice tutto dello choc che ha colpito i londinesi nelle ultime 48 ore. Una città solitamente poco emotiva ma che in queste ore, anche al vostro cronista, per una volta visitatore occasionale, è apparsa affranta e sinceramente piena di domande. Com’è possibile che una giovane star della Premier League, come Fabrice Muamba, 23 anni, del Bolton, possa essere colpito da una patologia così grave, nonostante i numerosi controlli medici di routine, a cui vengono sottoposti gli atleti? Non sarà che questi giovani giocatori di calcio sono sottoposti a una pressione anomala? E, vedendo tutti i soldi che girano anche qui in Inghilterra attorno al gioco del pallone, non sarà che magari a loro insaputa gli viene somministrato qualcosa di illecito che possa influenzare, in alcuni casi, il risultato agonistico?
Domande legittime e terribilmente simili a quelle che andiamo ponendoci da tempo anche in Italia. La circostanza poi che la partita si sia giocata in posticipo, in una serata comunque non certo calda, fa pensare all’asservimento dello sport più bello del mondo alla logica del profitto televisivo.
E tuttavia nella storia del giovane calciatore del Bolton c’è anche altro. Come l’imponderabile e imprevedibile destino che ti sorprende, quando meno te l’aspetti, e forse quasi all’apice del successo. Come altro si può chiamare giocare da professionista nella Premier a 23 anni? Un ragazzo che fino a sabato sera era considerato baciato dalla fortuna, una piccola star nel Regno Unito e forse una promessa per tutto il calcio del futuro, e che ora fa i conti col coma farmacologico e con un avvenire, non sappiamo ancora quanto, magari di agonismo oppure solo di vita normale o peggio con qualche strappo di disabilità…
Vista da una Londra che avrebbe dovuto ricordare San Patrizio e la conclusione del premio delle Sei Nazioni di rugby, la storia di Muamba è la vicenda di una sconfitta che la nostra società e la nostra cultura tengono a nascondere, a cancellare. Come se il frastuono della continua Disneyland in cui siamo immersi impedisse di affrontare la morte e la caduta, il limite terribile che può essere toccato dall’umano.
L’ombra del finale di partita sul prato verde di un campo di calcio contrasta terribilmente, e va reso onore alle autorità e al pubblico pagante che il match sia stato sospeso. Una volta tanto lo spettacolo si può e si deve fermare.
Epperò resta il dramma dell’uomo di oggi che tende, praticamente, ad esaltare tutto ciò che è riuscita, successo, carriera e non riesce più ad affrontare frustrazione e dolore. Come un eterno bambino viziato che pesta i piedi se qualcosa non va, come aveva voluto nei suoi sogni di plastica. Il povero calciatore di colore caduto sul “pitch” alla fine è il simbolo di tutto ciò: potente metafora di una vitalità, di colpo stroncata dall’imprevisto e dal forse eccessivo logoramento. La stampa inglese teme il peggio, ora. Ma l’augurio nostro è che il sacrificio del giovane Muamba comunque serva a cambiare stile. A Londra, ma anche da noi.