“È il film già visto con il caso Edison: quel che non ristatalizza l’Italia viene ristatalizzato dalla Francia. È la triste, pluriannunciata pochade andata in scena all’assemblea di Telecom Italia dove, com’era ovvio, il 20,2% del capitale controllato dal colosso francese Vivendi, che corrispondeva al 35,9% del capitale rappresentato in assemblea, si è astenuto dal voto sulla conversione delle azioni di risparmio in ordinarie e quindi, in applicazione del nostro codice civile che prevede il voto favorevole dei due terzi dei soci presenti, la delibera proposta dal consiglio d’amministrazione è stata respinta. (…) Surreale, in questo scontato epilogo della fase italiana del controllo di Telecom Italia, il fatto che a libro soci sia comparsa, a dare un segnale forte “di sistema” al mercato, la Caisse des Depots et Consignations francese con una quota dello 0,79% del capitale, pari all’1,4% delle azioni ordinarie presenti. Chiaro, adesso? Mentre da almeno tre anni la Cassa depositi e prestiti fa melina (è costretta a farla dall’insipienza della nostra politica) sulla decisione se entrare o non entrare direttamente in Telecom Italia, se rilevarne o meno la rete e quant’altro, i francesi – d’accordo o discordi che siano fra loro (tanto, non verranno mica a dire la verità a noi) – sono saliti al 36% del capitale, tra Vivendi, Neil e – appunto – la Caisse, cioè la Cassa depositi e prestiti dello Stato francese. E quindi comandano, o almeno interdicono”.
Autocitarsi è maleducazione, autocitarsi è vanagloria. Ma, fatto quest’atto di contrizione, sia lecito al Sussidiario ripubblicare questo stralcio da un articolo del 16 dicembre del 2015 – tre mesi fa – che già diceva chiaramente la situazione non emersa tra ieri e ieri l’altro, ma semplicemente ribaditasi con il gesto eclatante dell’ottimo Marco Patuano, ex amministratore delegato di Telecom Italia, di rassegnare le dimissioni per evidente incompatibilità con la linea dei francesi, nel frattempo saliti – almeno la Vivendi – al 24,9% del capitale del gruppo.
Dunque, Telecom è francese. Molto nitidamente, Mara Maldo già ha prospettato nel suo ultimo articolo su queste pagine in quale scenario va letta questa incontrastata crescita di Vivendi e dei suoi conterranei nel capitale della nostra ex-Sip, fino a quindici anni fa la più forte compagnia telefonica d’Europa, al pari e non al di sotto di France Telecom e Deutsche Telekom, e oggi preda conquistata. È assai probabile che questa mossa vada davvero letta come un “Nazareno industriale”, dove gli interessi strategici di Silvio Berlusconi e del suo gruppo nel gestire l’alleanza montante con Bollorè s’incrociano utilmente con i tentativi di Renzi di trovare ulteriore supporto parlamentare in Forza Italia (e non solo in Verdini) e sponda in Europa nel presidente Hollande.
Resta, però, legittima e urgente una domanda su cosa sia possibile, e lecito, fare per salvare il salvabile degli asset strategici di Telecom Italia, salvarli cioè da un presidio francese che può oggettivamente andare contro gli interessi nazionali. Vale la pena dirla chiara: che i servizi telefonici non risentano negativamente della gestione di una proprietà straniera lo dimostrano le buone prestazioni in terra d’Italia di tutti gli investitori esteri che già oggi dominano il mercato: angloamericani in Vodafone, russo-norvegesi in Wind, cinesi in H3G. È stato un peccato aver ceduto tanti asset, proprio noi italiani che da Meucci alla telefonia cellulare siamo spesso stati antesignani nel mondo in materia di telecomunicazioni. È un peccato che gli utili prodotti dalle nostre telefonate finiscano in tasche straniere. Ma ormai questa parte della frittata è fatta.
Quel che sarebbe assai importante salvare a un ancoraggio italiano sono invece le due reti che Telecom controlla: sicuramente quella di Telecom Sparkle, che connette il nostro Paese e buona parte d’Europa alla “grande Internet” mondiale; e anche (per quanto questa seconda tesi sia meno condivisa dai tecnici indipendenti, più incerti al riguardo) quella della telefonia fissa, sia in rame che soprattutto in fibra, oggetto dei piani finora sempre falliti o respinti di una “rinazionalizzazione” preventiva che, appunto, lasciasse al Paese, o meglio allo Stato, l’infrastruttura su cui viaggia il traffico telefonico di base.
Com’è accaduto con Terna (rete elettrica) e con Snam (rete del gas), le reti sono strategiche perché in uno scenario di conflitto, di crisi economica devastante e quant’altro, non è pensabile che il sistema circolatorio e nervoso di una nazione dipenda dai voleri di cittadini di altre nazioni. Tutto qui. È pensabile che con Vivendi al timone di Telecom il governo Renzi riesca (e voglia) attuare questo salvataggio in extremis (anzi, ormai va detto: questo recupero) di asset che altrimenti sarebbero pericolosamente persi?
È piuttosto improbabile, se non impensabile. Aveva il tempo e i mezzi per farlo da anni, quando Telecom era una public-company senza padrone e non l’ha fatto, quando neanche ancora era alle viste Bollorè e c’era soltanto una Telefonica in uscita a controllare il pallino, non ha capito o forse non ha saputo agire. Figuriamoci adesso.