La morte di Pasolini spesso mi ha rammentato una frase di Karl Marx, contenuta nel Manifesto del 1848, che recita: “La società borghese moderna, che ha creato per incanto mezzi di produzione e di scambio così potenti, rassomiglia al mago che non riesce più a dominare le potenze degli inferi da lui evocate”. Parafrasando la similitudine marxiana, è il poeta stesso ad avere – curiosamente – il posto (sintattico) della società borghese nella personificazione di “mago”; vale a dire: fermo restando l’atto criminale del suo assassinio, opera di ignoti in circostanze mai chiarite (forse mandati, ennesimo mistero dell’Italia repubblicana), la sua tragica morte sembra da egli stesso essere stata evocata in modo subliminale nelle sue ultime opere, quasi avendo messo in conto che il massacro morale e intellettuale cui è stato sottoposto per decenni in vita si sarebbe alla fine tramutato in quello materiale che ne ha posto termine.
La considerazione non vuole essere irriverente, solamente curioso è notare come il destino delle personalità notevoli spesso assuma l’aspetto di un testo nel testo, di una storia (story) nella Storia (history). Non sfugga, infatti, che Pasolini morì poco dopo aver terminato quello che doveva essere il primo capitolo di una seconda trilogia – della morte – che seguiva l’abiura ideologica della trilogia filmica appena compiuta, quella della vita, del cui ultimo capitolo Il Fiore delle Mille e Una Notte ricorre quest’anno il quarantennale dell’uscita. Fu infatti presentato in concorso al XXVII Festival di Cannes. Proiettato in anteprima il 20 maggio 1974, si aggiudicò il Grand Prix speciale della Giuria.
Come si capisce dal titolo, il film è tratto dalla celebre raccolta di novelle arabe, sceneggiate dal regista con la collaborazione di Dacia Maraini. La sua struttura complessiva somiglia al giochino delle scatole cinesi – o matriosche russe. Una vicenda principale si snoda lungo tutto l’asse narrativo-temporale: quella del giovane Nur ed-Din che perde l’amata Zumurrud, rapita dai briganti, e la ritrova infine sotto le spoglie maschili del re Sair. In contemporanea a questa, diverse altre vicende secondarie, reali e fantastiche, si intrecciano tra loro e attorno alla principale, formando un curioso e fiabesco arabesque, una sorta di poema visivo del Terzo Mondo arabo e mediorientale, un’esaltazione filmica sognante dell’antica bellezza di quelle terre.
“La verità non sta in un solo sogno, ma in molti sogni”, dice un servo alla principessa Dunja riferendosi al suo sogno premonitore: è la citazione simbolo del film come della raccolta di novelle cui si ispira, che esemplifica la cifra del fantastico attraverso cui Pasolini ha scelto di concludere la trilogia della vita (da lui stesso così definita), dopo i più sanguigni e politici – ma meno riusciti – Il Decameron (1971) e I Racconti di Canterbury (1972). Il Fiore delle Mille e Una Notte è così anche un lungo viaggio iniziatico di taglio onirico, un intreccio di sogni nel sogno, quasi di stampo bunueliano, nei quali sono collocati i misteri della vita e della morte, dell’amore e del sesso senza essere forzosamente codificati in termini accomodanti o trasgressivi.
Il tema portante di tutta la trilogia, cioè la forza salvifica primordiale del sesso e del corpo nella sublime cultura popolare, contrapposti al falso permessivismo della cultura borghese massificante e post-fascista, trova allora il suo miglior compimento nel film – forse – della massima maturità stilistica del regista.
Il Fiore fu denunciato per oscenità fin dalle prime proiezioni pubbliche, ormai un must per uno come Pasolini. Il procedimento fu però archiviato dalla Procura di Milano senza il rinvio a giudizio. La motivazione, riconoscendo il valore artistico e culturale della pellicola, considerava tra l’altro che il film andava visto come la “rappresentazione di una sensualità e di un’affettività non malate, perché libere dall’idea del peccato, propria della tradizione cristiana”. Esito della vicenda tutt’altro che gradito a Pasolini, che era uomo troppo intelligente per non capire che questa accettazione del lato ostentatamente deviante della sua opera costituiva un tentativo (riuscito) di omologazione della stessa alla cultura borghese dominante, responsabile di quel “degradante mutamento antropologico” che il poeta intravedeva nelle nuove generazioni di italiani, e contro cui da sempre ha diretto la sua più feroce critica.
La celebre abiura ideologica alla trilogia della vita, contenuta in un documento del giugno 1975, rappresenta allora la piena presa di coscienza di questo stato di cose. La gioventù trasgressiva capace di sinceri atti di libertà politica e sessuale non esiste più; quella parte dell’opera pasoliniana che ne celebrava le gesta, cioè la trilogia della vita, è stata strumentalizzata e fagocitata dalla società dei consumi (la vera “rivoluzione di destra”), neutralizzata dalla falsa dialettica della permissività che essa professa.
Pasolini sente allora forte la necessità di cambiare registro, per evitare di cadere ancora in una trasgressione e in una protesta ormai decodificate e depotenziate, destinate a essere perfettamente digerite dalla predetta falsa dialettica. Si spiega così il successivo film Salò o le Centoventi Giornate di Sodoma (1975), durissimo – a dir poco – film sul Potere dove la rappresentazione del suo male attraverso lo sfregio e il vilipendio del corpo-merce va ben oltre il limite di ogni sopportazione.
Doveva essere questo il primo capitolo di una seconda trilogia, quella della morte. Rimarrà invece l’unico e anche – fatalmente, nel senso già espresso – l’ultimo atto artistico della vita del poeta Pier Paolo Pasolini.