“Better data, better lives”. È questo l’obiettivo che l’Istat, con la collaborazione del Coordinamento degli uffici di statistica delle province italiane (Cuspi), è impegnato a raggiungere, anche attraverso il Rapporto sul Benessere equo e sostenibile (Bes) delle Province 2015. Infatti, nonostante i cambiamenti introdotti con l’approvazione della legge Delrio (“Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni”)che ridisegna i confini e le competenze delle amministrazioni locali, anche quest’anno il rapporto è stato realizzato e presentato a Roma il 14 marzo.
Prendendo le mosse dal fratello maggiore “Bes”, il Rapporto Bes delle Province monitora e analizza solo alcuni dei 130 indicatori disponibili a livello nazionale, facendone comunque scaturire una vera e propria mappa del benessere (o malessere) provinciale. Ancora una volta, infatti, la geografia che ne deriva mette in risalto un evidente dualismo tra il Centro Nord del Paese e il Mezzogiorno. E ciò vale anche per tutti gli indicatori del rapporto considerati, in particolare, nella dimensione lavoro e conciliazione dei tempi di vita.
Tasso di disoccupazione della popolazione (15-74 anni) e tasso di occupazione giovanile (15-29 anni) sono gli indici scelti per valutare le differenze tra province per questo specifico ambito. Cos’è emerso da questa analisi?
Nel 2015, il tasso di disoccupazione in Italia si è attestato al 12,7%, variando a livello provinciale tra il 4,4% e il 27,9% e registrando valori provinciali piuttosto polarizzati: soltanto 21 province si collocano nella classe di valori centrali (cioè tra il 10,6% e il 14,0%), mentre le rimanenti 89 si dividono tra le classi caratterizzate da minore incidenza della disoccupazione (50 casi) e quelle che invece identificano le aree del Paese in cui il fenomeno assume i valori più preoccupanti (39 casi). Inoltre, il tasso di disoccupazione rappresentato a livello provinciale mostra i massimi valori nel Mezzogiorno, mentre le province con i livelli più bassi sono tutte concentrate al Centro-Nord.
L’altro indice monitorato è, come si diceva, il tasso di occupazione giovanile e cioè la quota percentuale di occupati in età compresa tra i 15 e i 29 anni sulla popolazione totale di pari età. In Italia, sempre nel 2015, il dato relativo a questo specifico indicatore si attesta al 28,3%, ma varia notevolmente tra le province (intervallo compreso tra il 12,1% e il 47,4%). Anche in questo caso la distribuzione provinciale è polarizzata. A fronte infatti di una classe di valori centrali poco numerosa, si registrano dati superiori alla media Italia in 43 province e dati nettamente inferiori alla medesima media nelle 44 province rimanenti.
La rappresentazione territoriale dei dati indica chiaramente che sono le province del Sud Italia e delle Isole a esprimere, senza eccezione alcuna, i minori livelli di occupazione giovanile. A queste si contrappongono le province del Centro-Nord che, pur presentando un quadro più articolato, si caratterizzano per la maggiore partecipazione dei giovani residenti al mercato del lavoro. In particolare, è ancora una volta il Nord-est l’area del Paese in cui l’occupazione giovanile è in assoluto la più elevata, mentre le province del Nord-ovest si caratterizzano per tassi piuttosto omogenei, con alcune eccezioni come Torino, Cuneo e l’intera Liguria. Al Centro-Italia, invece, le province a cavallo tra Emilia-Romagna, Toscana e Marche si caratterizzano per aver fatto registrare livelli simili a quelli riscontrati per il Nord-ovest.
Particolare interesse, ma anche un pizzico di preoccupazione, desta il confronto di questa distribuzione con quella del tasso di partecipazione all’istruzione terziaria. Si evince da questa comparazione una tendenza non proprio positiva. Emerge infatti, per le province del Nord, una certa corrispondenza tra la maggiore occupazione dei giovani residenti e i minori tassi di iscrizione a corsi universitari. Questa corrispondenza non è così immediata e univoca, invece, per quanto riguarda le province del Centro e, soprattutto, del Mezzogiorno, dove purtroppo i contesti territoriali si caratterizzano per il fatto che il potenziale espresso dalle giovani generazioni non trova pieno inserimento né nel mercato del lavoro, né nell’ambito dell’istruzione (i cosiddetti Neet).
Insomma, l’Italia, ma soprattutto i giovani italiani, sembrano più vicini alla Neet-economy che non alla Net Economy. E questo è un problema serio.