In questo weekend di conclusione della 67esima edizione del Festival Cinematografico di Cannes (che ha visto la vittoria di Winter Sleep di Nuri Bilge Ceylan) ricorre il ventesimo anniversario della Palma d’oro a Pulp Fiction, secondo lungometraggio del regista americano di remote origini italiane Quentin Tarantino. All’epoca solo trentunenne, Tarantino non aveva ancora assunto quel ruolo di regista cult emblema della branca citazionista del cinema post-moderno, di referente primario della cultura pulp (per quel che significa) al cinema, ruolo che però comincerà ad assumere all’indomani del grande successo di pubblico e di critica – in genere – che il film conobbe.
Delle capacità del regista sia comunque testimone il fatto che, non ancora famoso, riuscì a farsi assegnare un cast notevole, portando in un film dal copione non proprio rassicurante – per così dire – alcuni attori ben affermati, non certo bisognosi di ulteriore fama, come John Travolta, Bruce Willis, Harvey Keitel, Steve Buscemi e Christopher Walken, quest’ultimo impiegato con sagacia in un memorabile cameo auto-citazionista.
Film difficile da raccontare, Pulp Fiction: come si può sintetizzarne l’intreccio quando non ne esiste uno in senso tradizionale? Il film contiene infatti non una sola vicenda ma almeno tre (se non quattro), che ruotano attorno a due (se non tre o quattro) coppie di personaggi. Vincent fa coppia con Jules, sono killer e fanno cose da killer (vicenda della valigetta). Lavorano per Marsellus Wallace, il boss, che per gioco del destino fa strana coppia col pugile Butch (storia dell’incontro truccato). Mia, moglie cocainomane di Marsellus, fa coppia per una sera con Vincent (faccenda dell’overdose di Mia). L’inizio e la fine del film si svolgono in una tavola calda, dove una coppia di rapinatori, Ringo e Yolanda, viene fermata sul più bello da Vincent e Jules, che si trovano lì per caso, reduci dal recupero della valigetta. Oltre a questi, diversi personaggi di contorno nutrono il singolare intreccio, tra cui spicca Mr. Wolf, l’uomo che risolve problemi, che aiuta i due killer a ripulire l’auto dal cervello spappolato di un ostaggio ucciso per sbaglio.
Film dal gusto irridente e dai memorabili dialoghi sul nulla, giocato tra il fun (divertimento) e il funesto, Pulp Fiction è carico di citazioni e riferimenti visivi alla storia del cinema. La citazione non più come omaggio, o sberleffo, ma come pasta o polpa (pulp) costitutiva del testo filmico, come testo essa stessa. Tale composizione in arte figurativa ha un nome: il pastiche. Il senso del pastiche è precisamente la sua mancanza di un senso, o per meglio dire di un messaggio, tematico o meramente narrativo.
In questa accezione in Tarantino non c’è messaggio, l’unico senso del film è il film stesso con la sua girandola di emozioni visive. Se il cinema moderno, da Godard in poi, si interroga anche – ed interrogare lo spettatore – sul rapporto tra immagine e realtà, chiedendo(si) cosa sia l’immagine e che rapporto abbia con il reale, il post-moderno alla Tarantino è un cinema che serve unicamente a mostrare immagini, senza nessun richiamo a una realtà esistente fuori da esse.
Pulp Fiction vinse anche un meritato Oscar per la miglior sceneggiatura originale. Se la sua ispirazione di partenza è tutta popolare, presa dalle storie di gangster e crimine vario pubblicate in Usa a partire dagli anni Trenta sui cosiddetti Pulp Magazines, i riferimenti stilistici del suo autore sono di alto livello. In quest’ambito Tarantino fa il verso, principalmente, al cinema di Jean-Luc Godard e di Alfred Hitchcock. È lo stesso Godard, in recenti speculazioni, a sostenere che il cinema del futuro si farà senza macchina da presa, perché interverrà il montaggio dialettico (trasparente, per quanto possibile, o analogico, ovvero attrattivo) tra immagini e sequenze di cinema già fatto, come testimonia il suo più recente film, Notre Musique (2004), dove le sequenze sono prese anche da altre fonti mediatiche diverse dal cinema; contaminatio visuale ormai inevitabile nel mondo contemporaneo.
Tarantino, con Pulp Fiction, asseconda ante litteram l’intuizione godardiana pur usando la macchina da presa – molto bene, come pochi altri ai nostri giorni – e filmando tutto con la stessa pulizia e bellezza di sguardo del migliore cinema moderno. Pulizia e bellezza volutamente riempita di violenza, fisica e verbale, ma solo per esibire un significante forte ma privo del suo solito significato. Il risultato è allora un film che contribuisce a far conoscere e codificare (criticamente) i caratteri del cinema post-moderno, almeno quello di taglio autoriale: intenso uso del metalinguaggio – che spesso pervade tutto il film, soppressione o alterazione della prospettiva spazio-temporale tradizionale (Pulp Fiction gira su se stesso come una trottola, un gioco, appunto), confusione tra reale e virtuale, ripresa di forme narrative classiche utilizzate però come cliché vuoti, come forme parafrasate, esplicitamente false dato che tutto è falso.
Poetica ed estetica del falso: lo smascheramento della finzione narrativa e visiva cinematografica pare fin troppo esplicita in alcuni passaggi del film, ma Tarantino piace tantissimo lo stesso a un vasto strato di pubblico, forse perché l’operazione in lui assume i tatti di un atto creativo valido in se stesso, cosa che ha tradizioni insospettabilmente antiche nell’ambito delle arti rappresentative, visto che era tipica già del teatro del commediografo latino del III-II secolo a.C. Tito Maccio Plauto.
In tempi recenti Tarantino ha dichiarato che con Pulp Fiction, e in genere col suo cinema, ha inteso e intende dare forti emozioni allo spettatore, per “lasciare che il pubblico si rilassi, si diverta e poi all’improvviso .. boom!, voglio trasportarli improvvisamente in un altro film”. Cioè in un altro dei tanti film polpa (pulp) duttile di cui la finzione (fiction) cinematografica si nutre: spettacolo!