L’Italia è senza uscita e può essere la miccia che fa riesplodere una crisi globale? La domanda sembra eccessiva rispetto alla crisi in corso in tanti paesi molto più grandi e importanti del mondo. Eppure altrove ci sono vie d’uscita, complicate, difficili ma possibili, mentre in Italia non si capisce da dove si può concretamente ricominciare, assomigliando molto il presente a un cumulo di macerie.
L’America è spaccata da una crisi di identità e ideologica che si dipana intorno al movimento del “tea party”, il quale condiziona il dibattito politico. Incombe il rischio del “default” del debito americano che porterebbe al disastro tutto il mondo. Ma c’è una via d’uscita: un compromesso politico immediato e un grande ricompattamento ideale davanti alle sfide del futuro.
Gli Usa devono rendersi conto che la minaccia attuale è molto peggio di una guerra in Iraq o Afghanistan e come e più di quelle guerre bisogna unirsi intorno al Presidente, che questi abbia ragione o torto. Non è chiaro cosa l’America farà, la soluzione è difficile vista la crisi interna del Paese, ma non è impossibile.
La Cina ha difficoltà che nascono dalla tripla sfida di riformare il suo sistema politico, le sue industrie di stato e temperare la sua politica estera e di difesa dai tratti oggi minacciosi. Sono cambiamenti strutturali profondi. Contro di essi è schierata quasi in armi una parte del partito, che teme di perdere poteri e privilegi. Affrontare queste sfide è difficile, poiché trainano con sé potenziali conflitti sociali. Non si sa se il governo riuscirà o meno, ma tali riforme sono possibili e se ne intravedono modi e tempi.
Anche la Germania è nel mezzo di una crisi di identità. Deve guidare l’Europa, ma dopo tre guerre combattute intorno alle sue ambizioni, o al timore di esse, oggi ha paura dei compiti che le spettano, e non sa come portarli avanti. Al suo interno, i vecchi partiti, dai Cristiano democratici ai Social democratici, mostrano la corda, mentre i Verdi paiono ancora poco realisti. Anche qui, la possibilità di una transizione politica e un’assunzione di maggiori responsabilità in ambito europeo sono sfide enormi. Non è chiaro se potranno essere vinte, ma si capisce quello che si deve fare.
In Italia, invece è tutto diverso: è un piatto di spaghetti, come dicono propriamente tanti stranieri, dove neppure si vede il bandolo della matassa, men che meno sono computabili le difficoltà della sfida. Ciò sarebbe ininfluente se l’Italia avesse le dimensioni economiche di Grecia o Portogallo. Ma l’Italia è il più fragile dei paesi grandi, il debito italiano è grande quanto quello tedesco, se Berlino se lo accollasse rischierebbe il fallimento.
In Italia, il ricordo va alla crisi di Mani Pulite, al 1992, quando ci fu il crollo del sistema dei partiti della Prima repubblica. Noi per primi in tempi non sospetti abbiamo avvertito la similitudine. Ma oggi, a questo punto è molto diverso e più grave di allora. Il quadro internazionale è molto più instabile e confuso. Allora c’era il chiaro crollo dell’Urss e la vittoria americana. Washington dominava il mondo, politicamente, economicamente e spiritualmente: gli italiani dovevano solo convertirsi tutti in filoamericani della prima ora e trovare il modo di mettere le proprie vele secondo il vento Usa.
Ma oggi lo scenario è cambiato: conta e conterà di più l’America, la Germania o addirittura la lontanissima Cina? A una classe politica che per quasi 20 anni ha dimenticato la politica estera, raddrizzare le vele con uno stato è già difficile, farlo con tre è assolutamente impossibile.
In questo quadro internazionale in bilico e straniante per i politici italiani incapaci di andare oltre confine, il contesto italiano appare senza uscite. La crisi italiana è sull’economia, i conti pubblici, che sono il punto di frattura, e da lì si allarga alle istituzioni e allo spirito.
Qui il ministro Giulio Tremonti, che solo qualche giorno fa sembrava essere l’ultimo puntello prima della frana, ora, per gli scandali che toccano due personaggi a lui vicinissimi, Milanese e Palenzona, sembra l’anello debole della catena. È solo, straniato dai partiti che lo sostenevano, il Pdl di Berlusconi gli ha voltato le spalle quasi pubblicamente, e la Lega, la sua vecchia briscola, si sta raggruppando intorno a Maroni contro di lui.
Questa, però, è solo la punta dell’iceberg. Infatti, anche a livello interno ci sono una miriade di differenze con il ‘92. Oggi, diversamente da allora ,c’è l’euro, non c’è la lira e quindi non si può svalutare. Né oggi c’è un’opposizione che scalpita all’angolo: allora c’erano l’ex Pci e la Lega, ansiosi di andare al governo e di provare al Paese e al mondo il loro nuovo corso. Ora l’opposizione appare polverizzata e certamente non ha idea di cosa fare se andasse al governo.
Allora c’era il proporzionale e la fine delle prime linee di Andreotti e Craxi apriva la porta alle seconde linee nella Dc e nel Psi: i Prodi e gli Amato sono venuti da lì. Oggi i partiti, con la legge elettorale in vigore in Italia, sono di fatto proprietà dei capi-partito; dunque la crisi di Berlusconi o Bersani fa crollare i partiti, ma non apre spazi alle seconde linee.
L’insieme di questi elementi blocca tutto. Il presidente Giorgio Napolitano forse potrebbe dichiarare l’emergenza nazionale, forzare la caduta dell’ormai tanto controverso Berlusconi, ma poi la nuova compagine non avrebbe i voti in Parlamento per governare. Né Berlusconi pare disposto a mettersi da parte per sostenere governi tecnici altrui.
Napolitano potrebbe poi mandare tutti alle urne, ma questi partiti vincerebbero comunque, anche a costo di vedere trionfare l’astensione. Anche perché votare un Parlamento di mille persone appare oggi più che mai ridicolo. In America, con una popolazione di cinque volte l’Italia, i parlamentari tra Senato e Congresso sono circa 500: in proporzione in Italia ne basterebbero allora un centinaio! Sono troppo pochi? Il paragone con gli Usa non regge? 300 comunque sarebbero più che sufficienti.
Mancano poi le forze sociali o istituzionali in grado di prendere il comando. I sindacati sono l’ombra di se stessi, la magistratura altrettanto. La Confindustria è divisissima, con le migliori aziende ormai diversificate all’estero e quindi in parte disinteressate alle questioni patrie. Nel ‘92 tutti questi attori erano presenti e attivissimi. Oggi resta solo la Chiesa, che non ha gran voglia di tornare in prima linea, tranne alcune bizzarre nostalgie per la rinascita della Dc, che oggi rischierebbe di sembrare uno zombie.
Nel ‘92, pur con tutti questi elementi in gioco, Berlusconi creò Forza Italia e tolse dal frigorifero politico l’estrema destra di Alleanza Nazionale, fino ad allora estranea ai calcoli parlamentari. Promise una rivoluzione politica e rinnovò almeno in parte il profilo del Parlamento. Oggi, senza attori politici e sociali attivi, ci dovrebbe essere un fiorire di nuovi partiti, invece non se ne vedono. Inoltre, formazioni nate dalla protesta come quella di Vendola o di Di Pietro, paiono già spaccate. I due sindaci, Pisapia (vendoliano) e De Magistris (dipietresco), hanno dichiarato, appena dopo le rispettive vittorie, l’indipendenza dai loro capi cordata.
Che fare allora? È una domanda senza risposta, neanche teorica. Questa incertezza profondissima, al di là della debolezza di Berlusconi, precipita come una valanga sulla crisi del debito italiano, cosa che a sua volta può ferire a morte l’euro e quindi mettere fuori i gioco il resto degli equilibri globali.
Forse sembrano calcoli eccessivi in Italia, dove non si avverte un senso di allarme grave, non si parla di fine del mondo, cose che invece appaiono chiare dall’esterno.
I cinici dicono che un problema senza soluzione non è un problema. Ma questi sono solo sciocchi giochi di parole, e a tampone della crisi il governo se ne andrà presto in vacanza sospendendo fino a settembre quelle aste dei titoli di stato che possono innescare la crisi. In questo modo, come a scuola, i problemi sono rinviati a settembre dopo la comoda pausa estiva.
Ma il mondo potrebbe non dare pace all’Italia in vacanza mentale ancor prima che estiva. Infatti, continueranno a essere trattati in Borsa i titoli di quelle banche considerati a rischio, perché hanno e avranno in pancia tanti di quei venefici titoli di stato. Un assalto che parte da quei titoli e si allarga come un incendio non è impossibile da ora a settembre, quando pochi comprano e vendono e molti sono distratti.
Ci vorrebbe tempo, ma forse non c’è tempo. Quando il Titanic Italia si sarà rovesciato e avrà cominciato la rapida immersione verso il fondo, ogni tentativo di salvataggio sarà impossibile. Il tempo di agire, in qualche modo, in qualunque modo, sarebbe ora, ma gli italiani con la testa già surriscaldata dal sole di agosto, lo faranno?
Questo non è un problema solo italiano, ma globale. E se gli italiani non agiscono, forse il mondo avrebbe bisogno di un’invasione dell’Italia molto di più di quanto anni fa ebbe bisogno dell’invasione dell’Iraq.