Il film Rear window di Sir Alfred Hitchcock, noto in Italia col titolo per una volta azzeccato de La finestra sul cortile, è una delle poche autentiche pietre miliari della storia del cinema, sul quale intere biblioteche sono state scritte. Il motivo di tanta attenzione dovrebbe essere evidente anche a occhi poco esperti: semplicemente, La finestra sul cortile è un film sul Cinema. Lo è in un modo più limpido dell’acqua e più chiaro del sole. Esso infatti mette in scena, in maniera ben visibile appena al di sotto della superficie narrativa di genere, l’innata natura voyeuristica del cinema, e di riflesso ci rivela quasi spudoratamente il nostro inconsapevole ruolo di guardoni. Come il fotografo protagonista del film guarda il cortile attraverso una finestra, noi assumiamo pellicole, in dosi e genere variabili a seconda della personale indole, bloccati su una poltrona e con tanto d’occhi incollati allo schermo, nel totale buio di una sala, affascinati, ipnotizzati, emozionati, spaventati, compartecipi, distaccati o divertiti da quanto vediamo.
Da non dimenticare poi che la finestra è stata, nella pittura occidentale anche molto prima della nascita del cinema (dall’opera di Albrecht Durer, 1471-1528, in poi), metafora di sguardo sul mondo e sulle umane vicende che in esso si dipanano, uno sguardo che le vuole narrare tutte, emblematicamente. Automatico che la nostra cultura, con l’avvento del cinematografo allo spirare del secolo XIX, l’abbia identificata (la finestra) anche con l’inquadratura della macchina da presa.
La finestra sul cortile usciva in anteprima mondiale a New York il primo agosto del 1954, e veniva poi presentato in Italia alla serata inaugurale della Mostra di Venezia dello stesso anno. Ne ricordiamo quindi oggi i suoi sessant’anni, rilevando con ammirazione che si tratta di testo filmico tanto intelligente da non essere per nulla invecchiato. Ha ancora molto da dire e da mostrare, a occhi solamente appassionati come a giovani volonterosi autori, e molto da farci riflettere sui meccanismi di quel fantasmagorico giocattolo visivo chiamato cinematografo.
Tratto dal racconto del 1942 “It had to be murder” di Cornell Woolrich, scritto sotto lo pseudonimo di William Irish e reintitolato “Rear window” in seconda edizione, il film hitchcockiano coglie dello script la parte di noir poliziesco un po’ sui generis, ma sviluppa poi su quell’intreccio un’estetica assolutamente peculiare all’universo filmico del regista inglese. Come sosteneva Godard, Alfred Hitchcock è stato uno dei più grandi creatori di immagini della storia del cinema. Il suo stile, nelle opere migliori, simula quello hollywoodiano classico, ma di fatto, dietro il finto predominio della narrazione, ogni tassello della messa in scena (movimenti di macchina, tagli di luci e di ombre, angolazioni innaturali dell’inquadratura) costituisce una situazione di incertezza, di falsità esibita atta a smentire la leggibilità del racconto classico e a spostare, soprattutto, la priorità del film dall’azione allo sguardo. Si può arrivare a dire che la sua intera opera, come quella di altri vecchi maestri, al di sotto del racconto ha per tema il cinema stesso, nel suo essere sguardo e immagine.
Di tutto questo Rear window è uno degli esempi migliori. Siamo di fronte a un film prevalentemente classico, che però si sviluppa su due piani paralleli sovrapposti e contemporanei: su uno si racconta una storia, mentre sull’altro si mostra l’atto del raccontare. È una sorta di saggio in corsa, che sottotraccia – ma nemmeno tanto – ci illustra i meccanismi del cinema stesso. Infatti, i tre personaggi, che dalla finestra guardano il caseggiato di fronte, si comportano come gli spettatori di un giallo: raccolgono indizi e ne traggono le conseguenze, costruendo man mano la storia di un delitto che dapprima pare surreale ma poi si rivela fondata.
Si noti inoltre che il punto di vista della narrazione cinematografica (da non confondersi con quello della narrazione letteraria), cioè la macchina da presa, non esce mai dall’appartamento del fotografo per tutta la durata del film, se non per seguirlo cadere dalla finestra stessa quando l’intreccio noir è ormai risolto e il film sta per finire. Scelta estrema, ma perfettamente funzionale all’idea base del film, che Hitchcock stesso definì “una sfida”, non soltanto dal punto di vista tecnico.
Dobbiamo infine al celebre libro intervista di Francois Truffaut, “Il Cinema secondo Hitchcock” (prima edizione del 1967), il seguente scambio di battute, che meglio di ogni ulteriore commento chiarisce definitivamente l’essenza di un film complesso come Rear window.
A.H.: “Abbiamo l’uomo immobile che guarda fuori. È una parte del film. La seconda parte mostra ciò che vede e la terza la sua reazione. Questa successione rappresenta quella che conosciamo come la più pura espressione dell’idea cinematografica. (….)” F.T.: “Perché l’atteggiamento di James Stewart è di pura curiosità” A.H.: “Diciamolo, era un voyeur. Mi ricordo di una critica a questo proposito. La signorina Lejeune, del London Observer, ha scritto che La finestra sul cortile era un film orribile, perché c’era un tipo che guardava costantemente dalla finestra. Penso che non avrebbe dovuto scrivere che era orribile. Sì, l’uomo era un voyeur, ma non siamo tutti dei voyeur?”. E questo è, semplicemente, il cinema.