Come dicevo nell’articolo di ieri, il fatto che gli italiani abbiano grandi risparmi e che il debito pubblico sia prevalentemente in nostre mani ci può mettere al riparo da un default. Vero, ma esistono anche due rovesci della medaglia. Primo, al minimo sentore di rischio di ristrutturazione le banche tedesche e francesi, così come le società di assicurazione, venderebbero il nostro debito col badile, di fatto creando una situazione di panico sui mercati in stile 2011. Se quelle vendite diventassero poi sell-off, ovvero ci perdo ma scarico prima che sia troppo tardi, i rendimenti volerebbero e il valore di quella carta scenderebbe di molto, lasciando le nostre banche con bilanci sanguinanti, avendo in pancia circa 300 miliardi di titoli di Stato e con le azioni del comparto che andrebbero in profondo rosso a Piazza Affari. Secondo, si può evitare la crisi per eccesso di debito ma forse non quella fiscale, visto che non è affatto detto che gli italiani decidano di comprare debito, soprattutto quando l’insostenibilità delle nostre finanze pubbliche diverrà palese, anche magari per la bocciatura da parte della Commissione Ue della Legge di stabilità e la prospettiva del default prenderà corpo.
C’è poi il fatto che l’Italia non è la Grecia, la cui ristrutturazione del debito – nonostante l’economia ellenica pesasse solo il 3% di quella dell’eurozona – ha messo da sola a repentaglio la tenuta dell’euro stessa: l’Italia è grande e ha il terzo mercato del debito pubblico dopo Stati Uniti e Giappone e, come vi ho già detto, da crisi del debito a crisi bancaria la mutazione potrebbe essere rapidissima e tutt’altro che indolore. Inoltre, andate a vedervi le serie storiche dei movimenti di mercato obbligazionario sovrano prima di una crisi: esattamente come oggi, chi investe è felice di prestare denaro a tassi bassissimi – oggi c’è solo un 1,3% di differenza tra il nostro decennale e il Bund – ma è altrettanto rapido e senza scrupoli nell’uscire di scena.
E attenzione, perché martedì è uscita un’altra notizia cui è stato dato poco rilievo sulla grande stampa ma che potrebbe essere interpretato da qualcuno come un segnale. Nel quarto trimestre di quest’anno, infatti, la Germania emetterà quattro miliardi di titoli in meno di quanto originariamente programmato, portando l’offerta nel periodo ottobre-dicembre a circa 43 miliardi di euro. L’agenzia del debito tedesca ha spiegato che saranno cancellate le nuovi emissioni di titoli a sei e dodici mesi inizialmente programmate per novembre, a fronte di esigenze di copertura del bilancio federale e dei fondi speciali inferiori rispetto al previsto. Se ben ricordate, la stessa formula utilizzata a inizio agosto dal Tesoro italiano per giustificare la cancellazione delle aste previste per il mese scorso, salvo poi scoprire che le necessità di copertura, invece, l’Italia le aveva eccome ma si temevano, come sempre, i possibili blitz ferragostani della speculazione.
Nel primo semestre Berlino ha messo a segno il surplus di bilancio più alto dalla riunificazione, evidenziando la solidità dei propri conti pubblici: in particolare, ha registrato nella prima metà dell’anno conti pubblici in attivo per 16,1 miliardi di euro e il surplus complessivo, che accorpa quello federale, statale e dei governi locali oltre che il sistema di previdenza sociale, è risultato pari all’1,1% del Pil. Nell’ultimo trimestre dell’anno, dunque, le emissioni tedesche ammonteranno a circa 4 miliardi su strumenti di mercato monetario e a 39 miliardi sul mercato dei capitali più lungo termine: nell’ultima asta, tenutasi lo scorso 17 settembre, Berlino ha collocato 3,341 miliardi di euro in Schatz con scadenza settembre 2016 con un rendimento sceso al nuovo minimo storico per la linea a due anni a -0,07%, portando il costo di finanziamento in territorio negativo per la prima volta da dicembre 2012.
Forse in Germania sanno che qualcuno potrebbe essere tentato da un colpo sul debito sovrano della periferia prima della seconda asta di rifinanziamento della Bce a dicembre, anche solo per spingere Draghi al Qe e preferisce limitare le emissioni per non pagare troppo, scontando le possibili turbolenze generalizzate nell’area euro. Chi comincia invece a contare già oggi queste tensioni sottotraccia, unite ai timori per il referendum catalano previsto per novembre, è la Spagna, la quale sempre martedì ha collocato 4,09 miliardi di euro titoli Stato a 3 e 9 mesi. Quelli a tre mesi sono stati piazzati a un rendimento dello 0,056%, in rialzo dallo 0,032% dell’asta precedente, mentre quelli a nove mesi a un rendimento anch’esso in rialzo allo 0,146% dallo 0,107%, scontando inoltre un rapporto bid-to-cover sul 3 mesi pari a 2,3 contro 3,2 dell’ultima asta e quello sul 9 mesi a 1,5 contro il 2,3 dell’ultima asta.
Ma andiamo avanti e torniamo all’Italia. Come vi ho già detto, a inizio settimana Morgan Stanley ha voluto dedicare soprattutto all’Italia un report dal titolo “Debtflation – One shock away”, nel quale si mette in guardia la cosiddetta periferia dell’eurozona dalla nuova minaccia che sta concretizzandosi a causa dell’alto livello di leverage del settore privato e pubblico e della situazione politico-economico instabile, la cosiddetta debitoflazione: «Con rendimenti obbligazionari già al minimo, l’inflazione è destinata a diventare una sfida per la sostenibilità del debito, se la crescita non è sufficientemente forte da operare come cuscinetto verso gli shock. E a nostro modo di vedere, alcune economie dell’eurozona sono molto vulnerabili al riguardo».
Per Morgan Stanley è proprio il nostro Paese ad apparire il più vulnerabile, «essendo rientrato da poco in una condizione di contrazione economica e di fatto in una recessione triple-dip. L’Italia ha un problema di stock di debito, noi ci aspettiamo un avanzo primario pari al 2,3% del Pil quest’anno. Già oggi però la crescita del Pil nominale è vicina allo zero, quindi quell’avanzo primario non è sufficiente a stabilizzare la traiettoria di debito. Ancora più importante il fatto che la ratio debito/Pil e spese per interessi /Pil – che stiamo rispettivamente al 135% e al 5,3% per il 2014 – sono così alte che una traiettoria discendente del debito potrà essere raggiunta solo con un surplus di budget primario superiore al 5%, un qualcosa che non solo dovrà durare per un lasso abbastanza prolungato di tempo ma che può essere raggiunto solo con una dinamica di austerità permanente».
E ancora, tanto per capire cosa ci aspetta una volta che la Legge di stabilità sarà stata inviata alla Commissione Ue e da questa bocciata e respinta al mittente: «Serve un’ambiziosa combinazione di crescita reale e inflazione o, alternativamente, il debito governativo potrebbe calare prendendo come assunto un avanzo primario pari al 2,3% del Pil e un tasso nominale di crescita che acceleri fino almeno al 3% su base annua. Questo scenario, però richiederebbe un tasso di inflazione sostanzialmente più alto che non sembra ottenibile nel breve termine o una crescita reale più forte, anch’essa difficilmente raggiungibile, a meno di un lungo periodo di stabilità politica e riforme strutturali». Leggi, la troika. Il nostro destino è segnato, prendiamo atto. Altrimenti, come uscire da questa potenziale trappola?
Due modi. O la Germania dà vita a una sorta di rilassamento fiscale, cui vada a unirsi un’azione questa volta davvero incisiva della Bce, ovvero comprare debito per almeno 60 miliardi al mese, oppure dire addio all’euro, tornare alla lira e ottenere così inflazione, un boom dell’export e “rilassare” la traiettoria della ratio debito/Pil attraverso una crescita di quest’ultimo. Una cosa è certa, stavolta il tempo sta davvero scadendo e forse Mario Draghi comincia a rendersene conto, anche se in maniera per l’ennesima volta sbagliata e serva dei timori verso la Bundesbank.
Mercoledì, dopo i deludenti dati dell’indice Ifo tedesco, ha dichiarato a una radio francese che l’eurozona non è in recessione e che la politica della Bce resterà accomodante per molto tempo, facendo svoltare il positivo le Borse di tutto il vecchio continente. Ma sono parole e fino a oggi sono state l’unica arma messa davvero in campo dalla Bce, temo che tra poco serviranno i fatti. Se questi tardassero ad arrivare, allora mettiamo davvero in preventivo scenari che fino a pochi mesi fa ritenevamo impossibili. In queste condizioni, senza Qe, senza Eurobond, senza unione fiscale, l’Italia nell’euro è destinata a morire e morire male. A quel punto, meglio provare a salvarsi andandosene.
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