Mario Monti che a New York annuncia la «disponibilità» a restare al governo è un terremoto di tipo speciale, un sisma «sobrio»: nessuno scrollone violento, ma un lungo tremolio che fa sentire i suoi effetti a distanza di un certo tempo. La forza dirompente non sta nell’intensità della scossa ma nella durata delle sue conseguenze. Così, la prima vittima del Monti-bis si registra qualche giorno dopo l’«outing» del premier. Ed è un personaggio che, come un ciclista alle prime armi, aveva lanciato una volata lunghissima arrivando spompato in vista del traguardo. Il suo nome è Luca di Montezemolo.
Il presidente della Ferrari aveva presentato i circoli di Italia Futura nel 2009. Non si è mai capito bene se volesse raccogliere l’eredità di Silvio Berlusconi o degli ex democristiani di Pierferdinando Casini. L’unico dato indiscusso è l’impercettibilità del suo peso nei sondaggi politici. La creatura montezemoliana non è mai decollata, un po’ per la collocazione lasciata nel vago, un po’ per l’indecisione del suo leader nello scendere in campo. Ai box della Formula 1 si impara presto che il tempismo è fondamentale e la strategia di gara è determinante almeno quanto la bravura dei piloti: sbagliare il momento di cambiare gomme può costare la vittoria in un gran premio. A Montezemolo è mancato proprio questo «timing». È rimasto ai box aspettando l’ora «X». Ha perso troppo tempo.
La disponibilità di Monti ha spiazzato sicuramente il Pd, forse farà un favore a Berlusconi evitandogli un ritorno nell’agone elettorale dalle prospettive tutt’altro che certe; ma ha agitato le acque anche nel campo a lui più vicino, quello dei centristi, gli unici veri sostenitori del tecnogoverno «senza se e senza ma».
Ma Monti che resta a Palazzo Chigi (e dunque rinuncerebbe a correre per il Quirinale, come invece da più parti ci si aspettava) è un generale senza truppe. Il Bocconiano è senatore a vita, dunque non si candiderà perché ha già un posto garantito in Parlamento. Non può diventare leader di un partito, perché non ne ha le capacità e il carisma. Ha bisogno che altri gli facciano da portatori d’acqua. Partiti che vadano in campagna elettorale a dire agli italiani tartassati ed esasperati: votate noi per garantirvi altri cinque anni di tasse e sacrifici.
Fini e Casini hanno risposto «sì» all’appello. I loro piccoli partiti vorrebbero trasformarsi una «lista civica nazionale» a sostegno del premier probabilmente puntando a ottenere (chi dei due?) la presidenza della Repubblica come ricompensa. Ma Montezemolo non può aspirare né al Quirinale né a Palazzo Chigi, e così si è messo a disposizione: i suoi circoli, dotati forse di idee ma senz’altro privi di voti, confluiranno in questo tentativo centrista.
Si ripete al centro quello che è già capitato al Pds-Ds prima di confluire nel Pd: cioè l’incapacità di credere in una propria leadership e di esprimerla. Per due volte gli eredi del Pci hanno puntato su un ex democristiano come Prodi per sconfiggere Berlusconi: la sinistra allargata ha vinto, ma il maggior partito è stato sconfitto non avendo il coraggio di battersi per un proprio uomo. E quando l’ha fatto, con Veltroni nel 2008, ha perso contemporaneamente le elezioni politiche e le amministrative di Roma.
Ora anche Casini e Fini si trincerano dietro Monti facendone una bandiera e sperando di lucrare sulla sua immagine di salvatore della patria. Accetterà il premier di farsi incasellare nell’angusto spazio di questo banale neocentrismo, lui che ha sempre rivendicato autonomia dai partiti ed estraneità alla politica ritagliandosi invece un ruolo di supplente straordinario? Staremo a vedere. Intanto Montezemolo è il primo che lascia il campo in questa lunga corsa a eliminazione.