Lo chiameranno il Governo degli acronimi, di cui ha abusato soprattutto in materia di welfare: Naspi, Asdi, Dis-Coll, Catuc (contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti). Ora arriva anche l’Ape (che non è l’Ape Maia dell’infanzia di Matteo Renzi), che significa Anticipo pensionistico. Proprio così: il Governo ha allo studio un progetto che dovrebbe, in qualche modo, adeguarsi a quella grande operazione mediatico-politica che prende il nome di flessibilità del pensionamento, quale rimedio di una presunta “rigidità” introdotta dalla riforma Fornero (la cui sostanza – giurano -intendono salvaguardare). La misura dell’anticipo (al massimo di tre anni rispetto ai requisiti anagrafici previsti dall’articolo 24 della legge Salva-Italia, nel quale si annida la riforma del 2011) sarebbe introdotta nella Legge di stabilità per il 2017 ed entrerebbe in vigore – in modo strutturale a favore degli over 63 anni – a partire dall’anno prossimo. L’anticipo sarebbe penalizzato solo sulla quota calcolata con il sistema retributivo (sarebbero così favoriti coloro che, all’entrata in vigore della legge n.335/1995, erano nel cosiddetto sistema misto) e in maniera diversa a seconda dell’ammontare della pensione: del 2-3% all’anno entro il limite di 1.500 euro lordi mensili (pari a tre volte il minimo), del 5-8% per ciascun anno per gli importi superiori. Per la quota in regime contributivo non ci sarebbero penalizzazioni anche se resta da definire quale sarebbe il coefficiente di trasformazione applicabile (quello dell’età anticipata oppure quello dell’età ordinaria?) con effetti evidenti sull’importo dell’assegno.
Non è ancora chiarito se l’Ape interesserà anche i pubblici dipendenti. Sembra altresì confuso il ruolo che dovrebbero svolgere le banche e le assicurazioni, a partire dalla definizione di un elemento di fatto preciso: l’Ape si iscriverebbe nel meccanismo del prestito a carico, appunto, di banche e assicurazioni, da restituire una volta raggiunti i limiti previsti per l’età di vecchiaia ? Nel qual caso non si comprenderebbero i motivi della penalizzazione, mentre occorrerebbe mettere in conto del pensionato (o di chi altro?) un normale tasso di interesse e creare – a tutela degli istituti finanziatori – un fondo di garanzia per i casi d’insolvenza.
Insomma, un grande pasticcio: un gramo tentativo di avere la botte piena e la moglie (o il marito) ubriaca. Verrebbe da chiedersi chi ci obbliga a infilarci in un meccanismo tanto complicato, quando i dati sul pensionamento effettivo dimostrano che in maggioranza i nuovi pensionati riescono a servirsi della quiescenza anticipata (facendo valere soltanto il requisito contributivo almeno fino a tutto il 2017) a un’età intorno ai 60 anni o poco di più.
Nella sua mega-intervista al Corriere della Sera il ministro Padoan ha affermato che la flessibilità potrebbe riguardare, in particolare, i lavoratori adibiti a mansioni usuranti. Che senso avrebbe una misura siffatta? Chi svolge attività lavorative maggiormente logoranti, per andare in pensione prima, dovrebbe subire un taglio consistente del trattamento spettante? Non è questa la logica con cui, da vent’anni a questa parte, si è ragionato per individuare una specifica tutela per tali situazioni di disagio. Peraltro esiste già un’apposita normativa per i lavori usuranti, con tanto di stanziamento finanziario, che, per diverse ragioni, non è stata applicata: sarebbe il caso, allora, di revisionare in maniera più adeguata la materia nei requisiti di accesso, senza fare confusione tra chi sceglie di andare in pensione prima e chi deve farlo per salvaguardare la propria integrità psico-fisica.
Insomma, non possono essere un capriccio estetico, una moda, un moto dell’anima di taluni parlamentari, né il tentativo di accaparrarsi un certo consenso in vista delle elezioni a scardinare un sistema pensionistico che ha raggiunto e mantiene a fatica un precario equilibrio.