Venticinque anni fa, nel fatidico 1989, veniva presentato al fuori concorso della Mostra di Venezia il film di Nanni Moretti forse più complesso, che negli anni si è però rivelato profetico. Testo filmico abilmente costruito sulle metafore e sui supporti mediatici della memoria individuale e collettiva, Palombella rossa è infatti una pellicola fortemente allegorica e disseminata di elementi simbolici e incisi stranianti da teatro dell’assurdo, tipici dell’universo poetico ed estetico del suo autore.
A un primo livello superficiale, il film narra la curiosa vicenda di Michele Apicella (Moretti), un dirigente del Pci che, in seguito a un incidente d’auto, ha perduto la memoria individuale. Durante una partita amatoriale di pallanuoto, che occupa tutto il film, Michele, incalzato da vari curiosi personaggi, ritroverà man mano la memoria personale e il senso collettivo del suo movimento politico, fino al finale nel quale, dopo aver sbagliato il rigore decisivo, si ritrova in compagnia della figlia a contemplare un finto “sol dell’avvenire”, raffigurante – forse – il definitivo tramonto degli ideali più alti.
Il citato valore allegorico del film è principalmente rintracciabile nella piscina in cui si svolge la partita, chiaro simbolo spaziale e temporale del cervello di Michele. Il cervello qui inteso, soprattutto, come l’archivio personale della memoria. Infatti è nella piscina e nei suoi dintorni che assistiamo, nell’incedere della partita-film, all’accumulo di quegli elementi narrativi e simbolici cui si faceva cenno.
La narrazione non procede in senso tradizionale, si appoggia solo al sottile filo conduttore della partita, che serve da collante temporale per i vari eventi memoriali e mediatici che man mano vi compaiono. Il protagonista Michele ritrova così, a sprazzi e in fasi successive, il ricordo del gesto eclatante fatto in una tribuna politica di qualche giorno prima; rivede un vecchio amico (Fabio Traversa) che gli ricorda una campagna elettorale di tanti anni prima; incontra una giornalista (Mariella Valentini) che lo vuole intervistare, e che anche gli rammenta il gesto della tribuna politica; ha alcuni flashback di ricordi di se stesso bambino, tutti collegati al tema della piscina; incontra la figlia adolescente; è assediato da due persone che gli rendono merito del gesto della tribuna politica; incontra un vecchio sindacalista (interpretato dal padre di Moretti, il prof. Luigi) che pare rammentargli di continuo la “retta via” politica; incontra un teologo (il regista cileno Raul Ruiz), un cattolico petulante, un fascista cui anni prima ha fatto un torto. Sono questi tutti personaggi simbolo che compongono l’universo memoriale interrotto del protagonista, che in una prima lettura formano il senso e il valore della ricerca della memoria, collettiva e sociale, del film: cioè la necessità del Pci dell’epoca di fare i conti col proprio passato (memoria) per interpretare il presente e rispondere ai cambiamenti sociali in atto.
Ma il film anche una lettura meno immediata, di carattere mediatico. La ricerca della memoria, più quella individuale che quella collettiva, che Michele conosce durante il film si basa infatti su diversi supporti tecnologico-mediatici. Troviamo così spezzoni di un conto in super-8 girato dallo stesso Moretti anni prima (La sconfitta, 1973), nelle scene in cui il vecchio amico gli ripete un ossessivo “ti ricordi, ti ricordi?”. Troviamo il film Il Dottor Zivago (D. Lean 1965, tratto dal capolavoro di Pasternak) che passa in tv al bar della piscina, simbolo di una sconfitta personale e politica, ma anche dell’idea che i media possano indurre pericolose ipnosi collettive sul pubblico, dato che gli spettatori della partita come i giocatori tutti si fermano davanti alla tv (appunto) rapiti dalle immagini del film. E poi: quando l’arbitro fa l’appello dei giocatori, Michele gli chiede di vedere la propria foto sul tesserino sportivo (la fotografia, altro supporto esterno della memoria). Anche la figura della giornalista, che si esprime per stereotipi linguistici contro cui Michele si scaglia con foga, ci appare di natura più simbolica che narrativa, evocatrice della superficialità e della pericolosità manipolativa dell’informazione mediatica, stampa e tv soprattutto.
Il film, come già evidenziato di struttura complessa, a una lettura ancora più profonda appare costruito su velate citazioni filmiche; e anche questo rientra nel complessivo discorso sulla memoria, poiché la citazione è essa stessa memoria, in quanto traccia mnestica che la storia del cinema lascia ai posteri. La struttura simbolica del narrato per elementi che man mano affiorano attorno o dentro a un luogo simbolo del cervello (la piscina) ricordano l’incedere narrativo e simbolico di Shining (S. Kubrick, 1980). Ci sono poi almeno due citazioni del cinema di Luis Bunuel. La scena in cui Michele, durante la partita, non riesce ad avanzare in contropiede nonostante sia libero da avversari, ricorda l’immobilità inspiegabile dei personaggi de l’Angelo sterminatore, film di Bunuel del 1962 anch’esso fortemente allegorico e di argomento sociale. Poi la scena del sogno nel sogno, quando Michele adulto – a bordo piscina – sogna se stesso bambino mentre fa l’incubo dell’allontanamento “in ciabatte” da parte dei genitori, ricorda una scena analoga ne Il fascino discreto della borghesia (1972), altra celebre pellicola di taglio metaforico del grande regista spagnolo. Se la struttura mono-location alla Shining serve a Moretti per meglio elaborare la complessa matassa simbolica del soggetto, il richiamo al cinema bunueliano sembra invece evocare l’intrinseco valore sarcastico e beffardo dell’immagine, anche di quella tramite cui si vorrebbero veicolare le memorie più autentiche e positive, sia individuali che collettive.
Quindi, in sintesi, il film di Moretti si rivela un’allegoria sul tema dell’importanza della memoria e sull’affidabilità dei suoi supporti esterni (media), con almeno tre livelli di lettura. Il primo riguarda il destino di un partito e movimento politico che per procedere deve rivedere (quasi letteralmente) tutta la propria storia, quindi la propria memoria. Il secondo si interroga sul ruolo che i media – tv e giornali soprattutto – possono giocare nel guidare questo processo di revisione storica e memoriale, anche in veste di supporto, autentico o manipolativo, di tali memorie. Infine, il terzo livello coinvolge il cinema stesso, cioè la sua capacità, o meno, di trattare argomenti di storia o di attualità sociale e politica secondo immagini per definizione virtuali, quindi per loro natura artefatte. Cioè: dato che il cinema è finzione, è possibile che le sue immagini raccontino un qualcosa di fattuale e storicamente attuabile, oppure esse per forza scadono nell’utopico e nel ri-visitato (quindi manipolato)?
Non tutto questo apparato tematico viene assiso dal film con risolta lucidità, ma Palombella rossa ha comunque il merito di aver colto, già venticinque anni fa, il peso crescente dei media nel determinare memorie collettive (autentiche o manipolate) di supporto al potere politico dominante. Individua in questo sia una tendenza che comincia a divenire chiara in quegli anni, sia una caratteristica intrinseca ai mezzi mediatici; ma in un modo che ancora non può immaginare quanto tutto ciò diverrà poi di stretta e drammatica attualità nell’era dell’ultimo ventennio.