Al voto, al voto. La Lombardia andrà a votare in tempi brevi e tutto lascia pensare che il centrodestra, dopo quasi vent’anni, non candiderà più Roberto Formigoni come governatore. La crisi in regione, latente dopo le inchieste giudiziarie che da mesi lambiscono il Celeste per i casi Daccò-Simone, ha avuto un’accelerazione dopo l’arresto dell’assessore Domenico Zambetti. Formigoni ha tentato di resistere, mettendo l’elmetto e infilandosi in trincea. Alla fine ha ceduto. Era la scelta più logica.
Finché le inchieste riguardavano la sanità e le presunte regalie per facilitare i rapporti con le strutture private, il governatore ha avuto buon gioco a ribattere evocando intrecci di interessi altrui. I voti comprati dalla ’ndrangheta sono una faccenda totalmente diversa. Non solo la Lega, ma Formigoni stesso doveva dare un taglio netto. Averlo fatto sotto la pressione del Carroccio non ha favorito la sua immagine. E c’è da considerare un risvolto assai pericoloso per il governatore evidenziato ieri dal ministro Severino: «Se vi era la possibilità di sapere e non si è impedito, c’è una corresponsabilità». Davvero nessuno sapeva nulla sui voti di Zambetti?
C’era da aspettarsi l’irrigidimento leghista: un partito che cerca di rifarsi la verginità non poteva lasciare correre la contiguità con la malavita organizzata che il nuovo segretario aveva combattuto da ministro dell’Interno. Ma lo stesso Roberto Maroni ha sottovalutato la rabbia dei suoi. Dopo aver garantito a Formigoni e al segretario del Pdl Angelino Alfano che la Lega si sarebbe accontentata di azzerare la giunta regionale e ripartire, Maroni ha dovuto incassare la prima sconfitta politica da segretario del Carroccio perché il Consiglio federale gli ha imposto la linea dura: altro che rimpasto, qui bisogna approvare il bilancio e la nuova legge elettorale e votare in primavera assieme alle politiche.
Nella sua trincea solitaria, Formigoni ha tentato di resistere. «Non erano questi gli accordi», ha balbettato. E poi: «Se cade la Lombardia, cadono anche Veneto e Piemonte». Ma è impensabile che, per difendere lui, il centrodestra sacrificasse le uniche realtà di governo (e «buon» governo) rimaste. Intestardirsi nel corpo a corpo, procedere al rimpasto, riaprire i balletti dell’«uno a me, uno a te…», farsi cucinare lentamente dalla Lega per sei mesi sarebbe stato letale per Formigoni.
Ieri mattina alle assise valdostane dei Democristiani di Gianfranco Rotondi (cui appartiene Zambetti) è stato Alfano a prendere l’iniziativa: «Niente accanimento terapeutico per la regione Lombardia, si vada a votare e decida Formigoni quando». L’improvvisa retromarcia di Maroni è stato un segnale chiaro, il Carroccio è un partito imprevedibile che oggi dice una cosa e domani un’altra. Ogni giornata fino al momento del voto si sarebbe trasformata in una passeggiata sul ghiaccio. A questo punto Formigoni ha dovuto prendere atto che la situazione è davvero compromessa. «Si voterà, parteciperò alla contesa ma non so in quale posizione»: è l’annuncio mascherato di un passo indietro.
Ma dietro questo inedito braccio di ferro a tre (Alfano-Maroni-Formigoni) si potrebbe nascondere un accordo a due, Maroni-Berlusconi: il Pdl sacrifica l’attuale governatore in cambio di un rinnovato accordo con la Lega alle politiche di primavera. Manovre, alchimie, bluff da pokeristi. Per ora una cosa sola appare certa: la lunga stagione di Formigoni al Pirellone è prossima al tramonto.