Gino Strada è un tipo ruvido, naturalmente antipatico e scostante per quel suo modo di affettare il mondo come una mela. Da una parte i buoni, i “resistenti”, come lui li chiama; dall’altra i cattivi, gli occupanti yankee, cow boys nervosi e dal grilletto facile. Da chirurgo manovra con precisione l’affilatissima lama del bisturi; da politico e arruffapopoli allinea alla grossa sulla sua lavagnetta i nomi dei nemici. Con un furore ideologico che spesso gli ritorna indietro come un boomerang.
Come in questo tragico pasticcio afghano: tre operatori italiani di Emergency arrestati mentre si preparavano a uccidere il governatore di Helmand. Accusa che ha tutta l’aria di essere una montatura organizzata per chissà quali obiettivi. Fino alla grottesca confessione di colpevolezza rilanciata dal Sunday Times di Londra, poi smentita anche dalle stesse fonti della polizia afghana. I tre probabilmente niente hanno a che spartire con i piani assassini dei talebani, sono innanzitutto volontari che sono in Afghanistan per salvare vite umane, per curare corpi dilaniati dalle mine, per riaggiustare arti di bambini straziati dalle schegge delle bombe. Piovute dal cielo o esplose dalle cinture dei kamikaze.
“Collateral damages”: danni collaterali, cioè lo strazio delle vittime civili: questa è la specialità del dottor Gino Strada e della sua organizzazione. Di Matteo Dell’Aira, infermiere e coordinatore medico, del chirurgo d’urgenza Marco Garatti, veterano dell’Afghanistan e del tecnico della logistica Matteo Pagani, ancora in stato di fermo in una struttura dei servizi di sicurezza afghani. Il portavoce del ministero dell’Interno di Kabul ha già modificato la sua posizione, smentendo di aver mai accusato i tre di aver nascosto armi e granate nell’ospedale di Lashkar Gah. Meno male.
Pure la complicità dei volontari italiani coi guerriglieri appare poco credibile e finalizzata ad altri scopi (quelli di espellere Emergency dal Paese) in una terra dove, come racconta il bravo reporter di guerra e giornalista free lance Gianni Micalessin, anche per i militari dell’Isaf, la coalizione della Nato, è indispensabile scendere a patti coi talebani. Del resto, lo stesso governo italiano è stato qualche tempo fa accusato dagli inglesi di avere canali sotterranei con i combattenti di Al Qaeda, grazie ai quali poté ottenere la liberazione di diversi ostaggi rapiti in Iraq e Afghanistan. Come il giornalista Daniele Mastrogiacomo per la cui liberazione Gino Strada si spese forse più del necessario, fino a porre inaccettabili condizioni alla Farnesina e al governo di Kabul.
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Il sospetto è che dietro l’arresto dei tre volontari di Emergency si stia giocando una intricata quanto oscura partita tra servizi del nostro governo, quelli di Kabul e l’intelligence inglese e americana, con sospetti mai sopiti e desideri di rivalsa su un’organizzazione che al prezioso lavoro umanitario ha tuttavia sempre mischiato la denuncia politica e la scelta di stare con una sola delle parti in conflitto. Questa è obiettivamente la debolezza di Emergency, responsabilità che ricade tutta sul suo fondatore Gino Strada il quale non ha mai risparmiato alla coalizione militare le accuse più dure. Chirurgo e agit prop, Strada pur non disdegnando aiuti e denaro dal governo e dalle pubbliche istituzioni, non perde occasione per attaccare le missioni di pace italiane accusate di illecita occupazione. La condanna della sporca guerra delle multinazionali del petrolio, ad esempio, non impedisce a Emergency di accettare pingui finanziamenti da parte uno dei maggiori società petrolifere italiane: il gruppo Moratti, grande sponsor del chirurgo.
Anche sul dramma dei volontari arrestati, Gino Strada ripete lo stesso errore di presunzione politica e verità ideologica quando indica in Hamid Karzai e nei Paesi occidentali che lo sostengono responsabili e mandanti. Schierando così pesantemente tutta l’organizzazione ed esponendola a rappresaglie e gravi rischi.
Oggi la solidarietà internazionale e la dedizione senza frontiere fioriscono nei luoghi e con i mezzi più impensati: uno di questi sono i bisturi di Emergency. Ma non sono i soli. Dalle macerie di Haiti ai medici dell’Uganda, dalle favelas del Brasile alle scuole per gli ex bimbi soldato del Rwanda: sono centinaia le organizzazioni che lavorano per restituire un futuro e ridare una speranza a chi non ne ha più. Ospedali, case di cura, migliaia di interventi chirurgici, decine di migliaia di pazienti assistiti e strappati alla morte. Volontari che arrivano quando tutti scappano, quando la guerra esplode nella sua lucida follia o la natura rovescia la sua violenza sugli inermi. Giovani e famiglie armati solo di gratuità, senza il clamore e la pretesa di salvare il mondo. In quei luoghi dimenticati costruiscono l’umanità possibile del futuro, nell’intimità con l’umano offeso, sorreggendone il lancinante bisogno di felicità. E non pretendono di venire considerati i giusti e i migliori.