Studente irrequieto e ribelle, che all’aula preferisce la biblioteca o il cinema e che quando viene spedito da casa a prendere il giornale, ancora per strada salta subito alla pagina degli spettacoli, scorre i titoli delle pellicole in programmazione e si misura con i testi delle recensioni. In seguito fondatore e animatore di un cineclub, quella del critico cinematografico è la professione che finisce per abbracciare incoraggiato dal grande André Bazin, dopo altre tra le più disparate e di breve durata, diventando così la firma più autorevole e temuta di Francia. L’ultima, decisiva svolta lavorativa lo vede passare dietro alla macchina da presa, scelta che ne farà uno degli autori più amati di tutta la storia del grande schermo. Ma come condensare in poche righe il debito di gratitudine del pubblico nei confronti di François Truffaut, di cui domani ricorrono i trent’anni dalla prematura scomparsa, avvenuta il 21 ottobre 1984 a soli 52 anni?
Chacun son Truffaut, ogni età ha (avuto) il suo Truffaut. Offerti allo sguardo del ragazzo ancora imberbe (e alle prime armi) ecco I quattrocento colpi (Les quatre cents coups, 1959) e Gli anni in tasca (L’argent de poche, 1976); a quello del giovane appassionato (magari in compagnia di un libro quale miglior amico) Fahrenheit 451 (id., 1966) e Il ragazzo selvaggio (L’enfant sauvage, 1970); a quello del cinefilo un po’ più maturo (anche, ma non solo, all’anagrafe) Jules e Jim (Jules et Jim, 1962) e L’uomo che amava le donne (L’homme qui aimait les femmes, 1977); a quello di tutti Effetto notte (La nuit américane, 1973): «Ascolta, vieni. Ora torni in camera, ti rileggi il copione, lavori un po’ e poi cerchi di dormire. Domani si lavora e il lavoro è più importante. Non fare il cretino. Sei un bravissimo attore, il lavoro va a gonfie vele. Lo so, c’è la vita privata, ma la vita privata zoppica per tutti quanti. I film sono più armoniosi della vita: non ci sono rallentamenti nei film, non ci sono tempi morti. I film avanzano come treni – capisci? – come treni nella notte. E gente come te, come me – lo sai bene – è fatta per essere felice nel lavoro, nel nostro lavoro del cinema. Ciao, conto su di te», dice con fare deciso il regista Ferrand/Truffaut all’attore Alphonse/Léaud.
Un esordio nel lungometraggio che il vero François compie a 27 anni – dopo alcune prove nella mise en scène di corti a metà degli anni Cinquanta – con il già citato I quattrocento colpi, primo capitolo del ciclo (ventennale) di titoli dedicati al personaggio di Antoine Doinel, cui lo stesso attore (Jean-Pierre Léaud) presta ben più del volto lungo tutto questo arco di tempo, caso unico nella storia del cinema. Nel 1959 a Cannes il film vince il Gran premio per la miglior regia e quello cattolico dell’Ocic (Office catholique international du cinéma), al Festival che accoglie in concorso anche Orfeo negro (Orfeu Negro) di Marcel Camus – che si porta a casa la Palma d’oro e più tardi anche l’Oscar per il miglior film straniero – e fuori concorso Hiroshima, mon amour del pure lui esordiente Alain Resnais.
Un anno che segna quindi ufficialmente l’inizio della cosiddetta Nouvelle Vague, una brezza di freschezza in fatto di grammatica e linguaggio cinematografici da cui prenderà le mosse anche il movimento della New Hollywood: si consideri infatti il fondamentale trait d’union rappresentato da Gangster Story (Bonnie and Clyde, 1967) di Arthur Penn, la cui regia in prima battuta era stata offerta proprio allo stesso Truffaut e all’amico Jean-Luc Godard.
Così, in una produzione che non conosce significative battute di arresto (con la sola eccezione della travagliata lavorazione legata all’adattamento del già ricordato celebre romanzo di Ray Bradbury, la sua prima pellicola a colori e non in lingua francese), si possono contare 21 lungometraggi e 4 cortometraggi in 25 anni di carriera, una continuità davvero notevole vista anche la qualità dei risultati. Si sono infatti voluti sintetizzare i suoi amori intorno a quattro grandi poli (i bambini, le donne, i libri e il cinema), ma chi conosce anche solo la metà delle sue opere sa che è molto di più quello che sorprende nel loro attraversamento, come l’imbattersi in una sorta di imboscata ordita di immagini, parole e musica.
Qualcosa di cui la “vittima” era in primis il loro stesso autore: «Anche quando adatta romanzi e racconti, Truffaut prendeva spunto dalla vita quotidiana per costruire intorno alle proprie storie un abbozzo di verità; il suo amore per la “realtà” non deve però far credere che il suo cinema sia prevedibile e lineare: ama anche spezzare la monotonia del vissuto con trovate divertenti, repentini ribaltamenti di senso, finali quasi sempre a sorpresa e spiazzanti. Truffaut è stato un regista, insomma, innamorato del cinema, che aveva assimilato la lezione del grande schermo innanzitutto da spettatore, che del cinema aveva subito tutto il fascino e che questo fascino intendeva riprodurre nella sua piena interezza» (Dario Campione).
Proprio come afferma in voce fuori campo, alla stregua di una confessione, ancora Ferrand/Truffaut in Effetto notte: «Siamo arrivati a metà dell’avventura. Prima di cominciare a girare, io desidero soprattutto fare un film che sia bello. A partire dal momento in cui sorgono le prime grane, devo ridurre le mie ambizioni e iniziare ad augurarmi semplicemente che si riuscirà a finire il film. Verso la metà della lavorazione faccio un esame di coscienza e mi dico: “Potevi lavorare meglio, potevi dare di più. Ora ti resta l’altra metà per rimetterti in pari”. E a partire da quel momento mi sforzo di rendere più vivo tutto quello che sarà mostrato sullo schermo. Vi presento Pamela mi sembra avviato sul binario giusto, gli attori sono a loro agio nei loro personaggi, la troupe è affiatata, i problemi personali non contano più, il cinema regna». Proprio così: le cinéma règne.
Ecco perché ancora oggi leggere o vedere un pezzo (ad esempio, sugli amatissimi Hitchcock, Renoir, Rossellini, Welles) o un film di Truffaut è qualcosa che accostiamo all’ascolto dell’Allegro del Concerto n. 23 di Mozart: tutta la storia del cinema – l’orchestra – vi è convocata, ci circonda con le sue immagini – le sue note – e l’ingresso del pianoforte segna un cambiamento di atmosfera, perché si sa giunto un altro, atteso, graditissimo ospite, a rendere quanto già presente ancora più pieno. E il dialogo che ne consegue è avvincente, pieno di tenerezza e profondità, come la chiacchierata all’aria aperta in un giorno di sole tra amici dove il superfluo non trova spazio.
Ai nostri occhi questo schietto, affettuoso senso di partecipata adesione alla materia che costituisce la stoffa delle sue opere – anche di quelle criticamente meno apprezzate – rappresenta l’eredità più luminosa (del cinema) di François Truffaut.