Tutti pensavano che il voto in Sicilia avrebbe portato un po’ di chiarezza nel Pdl, frastornato dal «doppio passo» di Berlusconi e dilaniato dai contrasti interni. Al risultato di Nello Musumeci sembrava legato il destino del segretario Angelino Alfano, che il Cavaliere avrebbe immolato senza rimpianti sull’altare sacrificale.
Invece, come nulla fosse. Musumeci è arrivato secondo, e per il Pdl questo significa un brutto «ko». Sconfitta doppia perché, senza la spaccatura che ha portato alla candidatura di Gianfranco Micciché (attribuita a un irrigidimento personalistico di Alfano), il Pdl unito avrebbe vinto superando il 40 per cento e potendo contare, con tutta probabilità, su una maggioranza che adesso Crocetta deve elemosinare qua e là.
E Alfano che fa, si dimette? No, si candida ufficialmente alle primarie minimizzando la pratica siciliana come un incidente di percorso. Contro di lui si levano le proteste delle «amazzoni» del Pdl e si materializza la candidatura di Daniela Santanché, in prima fila sabato pomeriggio alla fluviale conferenza stampa di Berlusconi a Villa Gernetto. Nessun nodo è stato sciolto. Il Popolo della libertà rimane un terreno di scontro, forse di autodistruzione.
Tra Alfano e Berlusconi i rapporti restano cordiali soltanto formalmente. Il Cavaliere ormai ha maturato la convinzione che il Pdl sia una palla al piede. Sabato a Lesmo ha lanciato il «suo» programma, non quello del partito, che anzi Alfano si è affrettato a correggere dicendo che il governo per ora non perderà l’appoggio pidiellino. Tra i due è guerra fredda, non si parlano ma si mandano messaggi in codice, l’uno parla perché l’altro intenda. Berlusconi non ha comunque forzato la situazione. È convinto che Alfano finirà male anche senza un suo intervento.
Ieri sono state varate le regole per le primarie, con una soglia elevata di firme (10mila) a sostegno delle candidature e un obolo di 2 euro a carico di ogni votante: è il modello Pd, che finora la destra aveva ricoperto di critiche e sarcasmi. Questa estenuante diatriba sulle regole interne, cui si sovrappone la discussione se fare primarie di partito oppure di coalizione, e che uno come Formigoni ha ieri complicato dicendo (e subito dopo correggendosi) che Alfano si sarebbe dovuto dimettere dalla segreteria se vincitore delle primarie, ebbene questo balletto da azzeccagarbugli contribuisce a dare un’immagine del Pdl avvitato su se stesso, prigioniero delle logiche interne, incapace di aprirsi alle richieste dell’elettorato.
Richieste che invece vengono intercettate − sia pure molto parzialmente − da un personaggio come Grillo. Il quale risulta, mediaticamente, il vincitore della Sicilia con una campagna vecchio stile tutta comizi e mercatini, condotta senza uno straccio di programma né grandi ideali, ma semplicemente tuffandosi prima nello Stretto di Messina e poi nelle piazze sicule.
Le primarie non scaldano i delusi del centrodestra, come non li accende più nemmeno Berlusconi con i suoi proclami magistratocratici e le accuse alla Merkel. Resta uno scontro interno che si annuncia anche più sanguinoso di quello in corso nel Pd: lì si parla di rottamare il vecchio, qui di eliminare il rompiscatole. Intanto Grillo avanza e la sinistra conquista la poltrona del governatore siciliano, a lungo occupata da rappresentanti del centrodestra.