Quarant’anni fa (il 13 novembre 1974) moriva Vittorio De Sica. Indiscutibile figura di grande rilievo nella storia del nostro cinema, e non solo, l’occasione del suo ricordo porta con sé alcune riflessioni, sintetiche e non esaustive del problema, sullo stato semicomatoso in cui versa il cinema italiano contemporaneo.
Pur avendo recitato in oltre centocinquanta film, dagli esordi del muto fino all’anno della morte in ruoli prevalentemente brillanti e istrionici (è stato, con Amedeo Nazzari, il divo dei “telefoni bianchi”), e avendo diretto dal 1939 al 1974 oltre trenta lungometraggi, Vittorio De Sica è soprattutto noto al mondo come il regista del Neorealismo. Consapevole movimento di rottura con l’immediato passato patinato dei già citati “telefoni bianchi”, che si è concentro in pochi anni e pochi film (quello propriamente detto consta di quattro film usciti dal 1945 al 1948), il Neorealismo italiano ha avuto grande impatto sulla cinematografia successiva – anche straniera – soprattutto in quanto primo importante momento di rinnovamento dei codici visivi fino ad allora conosciuti, e di sovvertimento delle auree regole produttive di Hollywood.
Molti sono gli autori moderni e contemporanei che, a diversissimo titolo, si sono detti figli dei quel lontano momento: da Martin Scorsese ad, addirittura, Steven Spielberg negli Usa; dagli indiani Satyajit Ray (anni Cinquanta) e Mira Nair; dal greco Theo Angelopoulos al docu-drama del britannico Ken Loach; dai fratelli Dardenne fino al cinema dello sguardo vuoto e dell’attesa di Abbas Kiarostami; dai registi sudamericani della scuola del realismo magico fino ai padri del cinema africano contemporaneo.
Viene da chiedersi come mai siano stati proprio i nostri a non aver saputo raccogliere – tranne sparuti e autarchici casi – alcun testimone. In Italia la stagione neorealista, stemperati i temi duri della guerra e alleggerito il taglio narrativo, ha dato i natali alla commedia di costume (detta poi all’italiana), filone d’oro che una volta esauritosi sul piano degli autori e dei protagonisti, e tramontata la società e il costume rappresentabili con quella poetica dell’ironia crudele, ha lasciato posto al nulla odierno.
A che punto si è sbagliato strada? Per abbozzare risposta si deve partire da una constatazione storica: è mancata la terza generazione di autori. Considerando come la prima quella di De Sica e degli altri neorealisti Rossellini e Visconti (con l’aggiunta di Antonioni e Fellini), e come la seconda quella dei giovani – chi più chi meno – che esordirono nella prima metà degli anni Sessanta, epoca nostra alla quale tutti i principali osservatori conferivano la palma di miglior cinematografia del mondo, il meccanismo di ricambio si è rotto a metà degli anni Settanta. È il momento in cui si scopre – ma va? – che iniziative produttive del tipo Giovannona Coscialunga hanno il pregio di contrapporre incassi notevoli a costi contenuti. Si è innescata allora un’involuzione nell’offerta produttiva tale da determinare, nel volgere di circa un decennio, un regresso nel meccanismo del ricambio generazionale degli autori.
Dei novelli De Sica forse si sarebbero potuti allevare (tacciamo per pietà del figlio Christian), ma il taglio “Giovannonico” ormai invalso nel principale circuito produttivo del nostro Paese ha fatto sì che questi possibili nuovi De Sica abbiano preso altre strade. Poi a metà degli anni Ottanta l’avvento massiccio della tv privata a diffusione nazionale – con incorporata orgia di immagini pubblicitarie – ha fatto il resto. A ciò si è aggiunto il fenomeno della concentrazione proprietaria che l’industria dell’intrattenimento leggero in genere, quindi anche della produzione e distribuzione cinematografica, ha conosciuto in Italia a partire dal 1986.
Non c’è bisogno di scomodare il recente premio Nobel Jean Tirole per affermare con sufficiente sicurezza che la concentrazione di proprietà, in qualunque industria che non sia un oligo/monopolio naturale, è sinonimo di scarsa qualità del prodotto. Da allora quest’industria, in gran parte abbandonata nelle mani – di fatto – di un sol’uomo (e sappiamo quali raffinati gusti culturali abbia quest’uomo), il cui unico interesse in questo contesto è stato il profitto tramite la pubblicità, ha modificato al ribasso, come effetto indiretto ma voluto, perfino il gusto dello spettatore medio, modellandolo sulle proprie esigenze produttive.
Alla fine tale processo ha fatto un’illustre vittima: il regista autore e innovatore. Le “Giovannone” anni Settanta e poi i “panettoni” anni Ottanta e Novanta, figli legittimi della tv privata dei “Drive-in”, hanno fatalmente tolto spazio produttivo a possibili nuovi autori, magari capaci di rinnovare stile e sguardo per adattarli a raccontare e, soprattutto, mostrare la nuova società. Si è solo proceduto riproponendo all’infinito un formato ormai obsoleto ma ancora commercialmente utile (la solita commedia: Verdone, Troisi, Benigni, Nuti), oppure tralasciando completamente la questione stile e facendo solo dei prodotti industriali dettati dal marketing e dal target, ingombrando allora le sale di “panettoni” e oggetti simili.
Tempi completamente diversi erano quelli in cui esordiva il De Sica regista, e con questo non si intende fare sterili graduatorie tra le epoche, cosa non possibile in quanto mai ben sovrapponibili tra loro. Si intende invece riferirsi allo specifico dell’ambiente culturale (ristretto) che costituisce l’humus entro il quale agiscono registi, sceneggiatori e produttori; ambiente che in dipendenza dalle diverse epoche da la possibilità – oppure no – ai talenti di fiorire sul piano artistico e tecnico-cinematografico, anche colmando a favore di questi ultimi lo iato che naturalmente esiste con il piano commerciale.
In questo senso l’epoca che ha visto l’affermazione di Vittorio De Sica come autore neorealista è anni luce lontana dalla nostra. Una personalità del suo calibro non ha ora bisogno, nell’anniversario della scomparsa, di troppi superlativi o elenchi elogiativi di premi ricevuti (tra gli altri: quattro volte premio Oscar per il miglior film straniero) per ribadirne l’importanza e le capacità sul piano artistico e interpretativo; basti notare l’abisso culturale, in senso cinematografico ma non solo, che la separa da quelle di oggi. Che sempre gli sia lieve la terra.