Da qualche settimana sui mercati si respira un’aria da “bull market” e delle preoccupazioni tremende che fino a qualche settimana fa condizionavano qualsiasi scelta di investimento non è rimasta più traccia.
Fine dell’euro, banche zombie, debiti statali dei Paesi periferici sono temi completamente scomparsi dal dibattito. Le performance dei mercati azionari da inizio anno sono la prova provata di questa nuova convinzione: Italia, Spagna e perfino Grecia stanno surclassando i mercati tedeschi, francesi e inglesi. I gestori che si sono fatti trovare impreparati e non hanno smontato per tempo le scommesse al ribasso sui Piigs stanno versando lacrime amare.
La “nuova situazione” è alquanto singolare: in Germania, giusto per dare un’idea, Volkswagen ha fermato la produzione per mancanza di componenti, mentre Siemens dichiara di avere difficoltà a trovare personale specializzato; in compenso i tassi sono fermi e la liquidità scorre abbondante sui mercati. Inutile dire che in questo contesto trovare porti sicuri in cui investire ottenendo rendimenti decenti diventa un’impresa impossibile, soprattutto se l’investimento in economie in vie di sviluppo non sembra più così privo di rischi.
È vero che le finanze statali di alcuni Paesi europei non sembrano per niente in via di guarigione, ma una ripresa vera, per quanto limitata, avrebbe impatti visibili su imprese di molti settori dopo i tagli e le efficienze fatte negli ultimi due anni. Quello che importa è che queste condizioni sono un terreno molto fertile per una ripresa del M&A in grande stile; fusioni e acquisizioni con la ripresa e una liquidità abbondante sono la terra promessa per i predatori e per le commissioni delle banche d’affari.
Ovviamente, siccome fino a prova contraria il mercato unico europeo esiste ancora, così come l’euro, questo revival finanziario non sarà circoscritto ai confini nazionali. Il fatto che il governo italiano dia l’impressione di non essere “granitico” è un elemento che non bisogna, in nessun modo, sottovalutare.
Giustamente qualche mese fa ci si preoccupava dei possibili impatti della crisi di governo sul rating del debito italiano e di come fosse necessario apparire stabili e credibili all’esterno. La possibilità di default o di uscita dall’euro che, con più o meno probabilità, tutti contemplavano scoraggiava qualsiasi velleità di conquista. Oggi invece le cose sono molto diverse.
Non si tratta di agitare spauracchi più o meno fondati per aumentare il panico; sono di questi giorni i rumors su una scalata ostile su Parmalat, che fino all’altroieri veniva considerata, per una sorta di tacito accordo, intoccabile dopo i noti danni cui aveva contribuito non poco anche un certo mondo finanziario: una public company italiana che deve rimanere tra i confini patri e nessuno la tocchi punto e basta. Uno sguardo un po’ più attento troverebbe altri punti sensibili e vulnerabili in una buona parte dell’economia italiana quotata.
Ci sarà chi invocherà l’efficienza dei mercati finanziari e la libera circolazione dei capitali, ma solo un’ingenuità enorme può far credere che la difesa di alcuni settori chiave o di alcuni campioni nazionali sia il frutto di un protezionismo sorpassato. Provate ad andare in Germania a fare un’opa su Allianz o in Francia su Axa o Psa, o su una banca spagnola, o in Gran Bretagna su BskyB, tanto per fare degli esempi strampalati. Ci sono tanti modi per avere una presa forte da parte dei governi su società o settori considerati sensibili anche in assenza di azionisti di controllo; il mito della public company quotata senza padroni di alcun tipo dovrebbe essere stato smentito da tempo, quanto meno dopo quello che è successo negli ultimi due anni; d’altronde Goldman Sachs non ha nessun rapporto col governo americano e Fannie Mae, Freddie Mac e Aig non devono in nessun modo essere considerate “para statali”.
Per quanto riguarda l’Italia, una distratta occhiata al listino solleva qualche motivo di apprensione su consistenti parti del sistema bancario e assicurativo, del risparmio gestito, delle utility e perfino, come nel caso di Parmalat, di qualche settore industriale. Si può anche decidere di credere che la debolezza politica non abbia niente a che vedere con passaggi di proprietà più o meno evidenti e con mezze “rivoluzioni” dei rapporti di forza economico-finanziari; infatti, durante e dopo tangentopoli non è successo assolutamente niente.
Per chi ha smesso di credere, o non ci ha mai creduto, nella perfetta neutralità dei mercati e dei capitali, invece, questo è un momento estremamente delicato. Oggi è il giorno del voto sul federalismo, con tutte le possibili conseguenze che questo fatto comporta. Il dibattito politico attuale a un “disinteressato” osservatore straniero non dà l’impressione di un Paese che, al di là delle divisioni, mette in primo piano l’interesse generale. Se dovessimo misurare lo stato di allerta sulle reazioni ai rumors, veri o inventati non importa per niente, di scalata a Parmalat dovremmo concludere, come quando il portiere avversario è scarso, che basta tirare in porta per segnare.
Ci manca solo qualche articolo dell’Economist o del Financial Times sull’arretratezza della cultura finanziaria italiana per chiudere il cerchio; anzi no, per chiudere il cerchio aspettiamo il momento in cui qualche professore o politico particolarmente “moderno” tessa le lodi della finanza globale e della stampa veramente libera e dichiari al mondo di vergognarsi di essere italiano. Per l’occasione abbiamo sotto mano una considerevole quantità di articoli di stampa internazionale, anglosassone compresa (chi scrive giusto per fugare dubbi pensa che il FT sia un quotidiano eccezionale), che vanno sotto il nome volgare di marchette; le dichiarazioni su Aig, Fannie Mae e Freddie Mac di autunno 2008 e gli stress test sulle banche tedesche invece sono appesi alla parete.