Di tutte le cose che si sono sentite in queste settimane su Atlantia e dintorni quella che ci stupisce di meno è la sicurezza del posto di amministratore delegato di Castellucci. Ancora ieri veniva negata qualsiasi intenzione di dimissioni e ci immaginiamo che il fronte degli azionisti su questo punto sia compattissimo; soprattutto, lavoriamo ancora di fantasia, tra quegli azionisti “più uguali degli altri” che concorrono a determinare il cda.
Nella eventuale distribuzione di responsabilità, onori o oneri si deve sempre ricordare che Sintonia con il 30% del capitale nomina l’80% dei membri del cda; niente di strano o anomalo, ovviamente, ma è sempre utile ricordarlo quando si “incolpano”, proporzionalmente, anche i piccoli risparmiatori.
In ogni caso, i successi finanziari dell’attuale amministratore delegato del gruppo sono da incorniciare allo stesso modo di quelli di un Marchionne, anche se nessuno ne ha mai parlato. Il fatto che nessuno ne abbia mai parlato è una delle tante ragioni che ci sconsiglierebbero qualsiasi cambio al vertice.
Prima del crollo del ponte di Genova il titolo Atlantia viaggiava a livelli prossimi ai massimi di sempre, scalfito solamente dal rialzo dello spread, e la società si avviava a diventare il principale concessionario europeo, mentre continuava a distribuire dividendi che in questi tempi di tassi schiantati erano ancora estremamente appetibili. Questo successo veniva costruito gestendo la concessione autostradale di un Paese che negli ultimi dieci anni ha vissuto almeno due crisi epocali, Lehman Brothers e la crisi dei debiti sovrani del 2011/2012, con la disoccupazione stabilmente sopra la doppia cifra. Questa vera e propria gallina dalle uova d’oro continentale, e cioè il monopolio (o quasi) sulle autostrade italiane, si apprestava a essere allungata di quattro anni, senza alcuna gara, con i generosi rendimenti connessi.
Come dimenticare poi i successi nei primi anni 2000, quando alcuni organi ministeriali sollevano, secondo noi con argomenti molto validi, un problema di extra remunerazione, oppure quando lo “scontro” con Di Pietro si concludeva con la blindatissima convenzione del 2007?
L’affondo su Abertis a suon di miliardi e valutazioni talmente piene che nessun fondo sovrano o infrastrutturale si faceva avanti e che finiva, per forza di cose, con un compromesso che comunque garantiva al gruppo italiano la maggioranza, avveniva senza che nessuno si chiedesse da dove e come venissero tutti quei miliardi e come fosse possibile che il concessionario di un Paese così fragile potesse avere una tale forza finanziaria.
Potremmo poi citare i successi nelle trattative con il governo italiano sulla concessione di Aeroporti di Roma, o, più recentemente, quelli dell’affondo sull’aeroporto di Venezia. L’abilità nel trattare con il concedente è stata praticamente leggendaria, così come quella di mantenere un profilo bassissimo; il risultato è un leader continentale costruito con i pedaggi incassati nel malato d’Europa senza che nessuno si accorgesse di una contraddizione inspiegabile senza assumere, anche, l’estrema “generosità” dello Stato italiano. I concessionari francesi o spagnoli (quelli tedeschi non esistono) così tanti soldi non li hanno mai fatti eppure le economie sono molto più sane…
Senza l’incidente di Genova che, sospettiamo fortemente, sarà alla fine solo un incidente di percorso, oggi le analisi sulla profittabilità della concessione sarebbero ancora ristrette a un esiguo manipolo di osservatori guardati con il sospetto che normalmente si riserva agli ufologi. Per questo non ci stupiamo affatto che nessuno discuta una leadership che ha prodotto tali risultati.