Sono sollecitato a chiarimenti sulle mie riflessioni relative all’alternanza scuola-lavoro (Asl). Non mi interessa molto il tono polemico, anche se dialogare con chi ti dà delle definizioni non è proprio stimolante. Provo a prendere sul serio alcune provocazioni della professoressa Morri.
1. Prima di discutere delle ragioni scusatemi se espongo un po’ di “lustrini”. Ho iniziato l’Asl in un liceo scientifico classico nel lontano 1998, quando non solo non era obbligatoria, ma a farla erano pochi licei in Italia; ho terminato poi con una collaborazione al ministero su questa attività nei professionali. Sono fiero di quanto fatto a scuola, proprio perché i ragazzi lo chiedevano ed erano contenti di vivere questa esperienza fuori scuola. Talvolta più che quella dentro. Non parliamo poi della soddisfazione nel vederla vissuta da quelli dei professionali. In queste attività non solo ho trovato grande aiuto da parte di diversi docenti (molti altri invece ostili, si sa) e genitori, ma anche da loro preziosi suggerimenti su come rimediare agli inevitabili difetti ed errori e migliorare le condizioni dell’attività. Anche per questo (non solo) ho salutato con entusiasmo la scelta dell’obbligo di un monte ore definito: nella scuola italiana (per le cause che ho già descritto) nulla di nuovo può accadere senza obbligo. L’abbiamo visto con tutte le poche utili riforme scolastiche.
2. Dopo di che si può ovviamente migliorare tutto: rivedere la quantità e modalità del monte ore obbligatorio; fare norme che incentivino le aziende ad ospitare i giovani (come in quasi tutta Europa, tranne che da noi); formare meglio gli insegnanti (vero problema di tutta l’esperienza). Non era intento principale del mio articolo entrare nel merito di come fare meglio Asl. Se effettivamente questo interessa alla docente universitaria, può leggere le pubblicazioni che ho curato sul tema. Ma senza tornare indietro dall’obbligo per lasciare — come “ironicamente” recita il parere del Cspi — tutto “all’autonomia” delle scuole, che, in tal caso, tornerebbero come prima: in quasi tutti i licei eliminando l’attività in nome della “vera cultura” e del “vero studio” (non a caso l’autrice della lettera si riferisce al liceo classico); in molti tecnici e professionali rendendola marginale come per anni hanno fatto (d’estate o nelle vacanze).
3. C’è poi una forte incomprensione di fondo sia nelle lettera che già nel parere del Cspi: l’Asl non ha come scopo principale di preparare i giovani ad esercitare subito un lavoro, neppure nei professionali. Altro che “perdere ore di scuola”: l’Asl è un aspetto di un nuovo modo di fare scuola (anche nel liceo classico dove ho iniziato la prima Asl) la cui finalità principale è la formazione della persona, in particolare della sua conoscenza di sé in azione, della suo capirsi come diventare grande, in termine tecnico del suo “maturare competenze per orientarsi alla vita attiva”. E questo a prescindere dalla relazione meccanica tra attività svolta in azienda o ente durante la scuola (e non in vacanza, perché è scuola!) e mestiere o professione che farà dopo gli studi. Di questa metodologia attiva ha enorme bisogno la scuola italiana, ridotta spesso alla cultura del libro, dell’astratto, fin dalla scuola elementare. Con tutte le conseguenze sul modo con cui i nostri giovani vivono la scuola.
Sostenere che l’Asl, a cause degli errori e mal funzionamenti, serve a chi “non ha nulla da insegnare” è come sostenere che i guai che accadono negli ospedali sono colpa della professione medica in quanto tale e non di chi e come la esercita. Proprio come hanno fatto i sindacalisti nel parere in discussione: usare esperienze negative per delegittimare l’attività.
4. Capisco che la docente universitaria avrebbe gradito che la figlia portasse a casa qualche soldo (come forse farà d’estate) invece che “lavorare per nulla”, ma per l’Asl, come per studiare il greco, è fondamentale “non avere guadagni”, cioè vivere seriamente un tempo dell’imparare. Ben diverso questo dalle esperienze di “service learning” che sono attività integrative (non necessariamente curricolari) dove imparare anche l’esperienza della gratuità, del servizio, attività che mi pare, purtroppo, la nostra genitrice non pare apprezzare molto.
5. Purtroppo conosco bene la diffidenza, quando non l’ostilità, all’Asl di quelli che l’autrice chiama “gli operatori economici”. Basti pensare alle banche o alla grande industria che da tempo non accettano giovani in Asl. Diversamente da quanto avviene in una ditta tedesca dove partecipare alla formazione dei giovani è un atto di fierezza sociale, da noi (salvo le dovute eccezioni) dedicare del tempo ai giovani sul posto di lavoro è visto un po’ come perdere tempo. Tranne fra gli artigiani dove invece c’è grande attenzione a questo.
6. Mi spiace se, nel breve spazio di un articolo, argomenti e motivazioni non siano condivise: però credo che i gravi problemi della preparazione dei nostri giovani alla vita attiva e anche al lavoro (è così poco nobile e “culturale” farlo?) non si risolvano abrogando leggi, ma semmai migliorandole. Obiettivo del quale purtroppo il parere sindacale non si occupa. Che libertà si ottiene a togliere alle nostre ragazze ed ai ragazzi esperienza riflesse, culturalmente preparate e guidate di vita attiva, di attività anche manuale? C’è tutta una cultura gentiliano-marxista da cui liberarci per capire questo. Ma non è questo il luogo per approfondirla. Non gloriamoci però troppo della nostra scuola italiana: i confronti internazionali non ci sostengono; l’abbandono, la demotivazione, la dispersione scolastica, la disoccupazione giovanile (non certo quelle delle famiglie di qualche docente universitario) sono problemi gravissimi che riguardano milioni di nostri giovani. Ci interessano? O ci interessa solo il liceo classico?