E così rieccoci a parlare di una crisi in Argentina: ma premettiamo che questa volta, come nello scorso maggio, non siamo di fronte alla replica del tragico dicembre 2001 che tutti ricordano, ma una situazione che si conosceva almeno dal 2014 e che oggi si sta proponendo in una dimensione che, per alcuni economisti locali, rappresenta la fase iniziale di un fenomeno che si andrà amplificando nel tempo.
Difatti lo stesso Papa Francesco, alla vigilia dell’ultima tornata elettorale nel 2015 per le presidenziali, aveva avvisato entrambi i contendenti (Mauricio Macri e il kirchnerista Daniel Scioli) che chiunque avesse vinto avrebbe avuto come passo obbligato la creazione di una Costituente in grado di far fronte a una situazione che già si intravedeva drammatica.
Solo un’unità tra Governo e opposizioni, sosteneva il Papa, avrebbe salvato il Paese: era quindi obbligatoria la ricerca di un dialogo attraverso la distensione. Questo perché era chiaro a tutti che nei 13 anni precedenti l’attuale Governo, nonostante una situazione economica estremamente favorevole dovuta all’aumento del prezzo della soia alla Borsa di Chicago, gli ingenti capitali accumulati dallo Stato non sono serviti per la costruzione di infrastrutture necessarie allo sviluppo del Paese, bensì per l’elargizione di giganteschi sussidi alle classi più bisognose, senza tuttavia che questa operazione le abbia risollevate dallo stato di povertà: era solo funzionale a uno scambio politico con il voto, un po’ quello che è accaduto nel Brasile di Djlma Rousseff. E quando i fondi si destinavano alle “grandi opere”, la gran parte finiva nella colossale corruzione rivelata dagli ormai famosi “quaderni”, di cui sono ormai in pochi a discutere i dati, confermati quotidianamente dalla lunga schiera di pentiti che si accalca nei corridoi del tribunale di Comodoro Py a Buenos Aires. Dati diffusi nei giorni scorsi dall’Università di Buenos Aires calcolano in 30 miliardi di dollari la cifra della corruzione nel Paese dal 2003, dato che corrisponde a 6 punti del Pil argentino.
A questo punto, però, per poter raggiungere l’intesa auspicata dal Papa bisogna essere in due; e ancora una volta parte del peronismo ha dimostrato quello che gli ultimi 70 anni di storia dell’Argentina confermano: che non è capace di stare senza il potere, pretendendolo con ogni mezzo. Anche se questa volta la frangia peronista “dura” si identifica con la sola parte kirchnerista del movimento che, insieme a gruppi di estrema sinistra e schegge di altre formazioni sempre ispirate a Peron, costituiscono una minoranza che gode dell’appoggio di ex organizzazioni per i diritti umani, Madri e Nonne di Plaza de Mayo in prima fila, che si definiscono ormai “ultrà-kirchneriste”. Nel loro Dna c’è il rifiuto totale della democrazia, come testimoniato dall’ex presidente Cristina Kirchner, ora sul punto di essere accusata per lo scandalo della corruzione, che all’indomani dell’elezione di Macri rifiutò la cerimonia di passaggio delle consegne, facendo presagire quello che poi si è tradotto in un’opposizione violenta al Governo in carica, specie con gli assalti al Congresso del 2 e 3 dicembre scorsi.
Che l’Argentina stia vivendo un momento difficile lo testimoniano pure i dati che mostrano la crescita delle popolazioni nelle villas miserias che circondano il Gran Buenos Aires, circa il 10% dei suoi abitanti. E anche i 106mila posti di lavoro persi in questi ultimi anni.
C’è poi un’analogia con la tragica crisi del 2001: ancora una volta la situazione della Turchia ha messo in evidenza la fragilità economica dell’Argentina. Infatti, tra le conseguenze dell’11 settembre, ci fu il dirottamento di capitali americani verso il Paese di confine con l’Asia, ma sopratutto con il Medio Oriente invece che immetterli in un’economia argentina alla vigilia del default. Cosa che successivamente provocò la tragedia e che l’allora ministro dell’Economia del Governo del radicale De la Rua, Domingo Cavallo, pensava di evitare proprio attraverso l’aiuto di Washington.
L’errore macroscopico di Macri è stato quello di non aver saputo modificare, anzi amplificandola, pur nella tragica situazione finanziaria ereditata dal precedente Governo, l’attitudine da Babbo Natale dello Stato argentino; senza tentare seriamente di trasformarlo in una repubblica con uno stato di diritto anche senza disporre di una chiara maggioranza nel Congreso de la Nacion, seppure lo zoccolo storico del peronismo sia stato per lungo tempo suo alleato.
Casse vuote, quindi, e Stato che spende cifre folli senza un ritorno di sviluppo economico: è abbastanza logico che, a questo punto, si sia dovuti ricorrere a prestiti internazionali, ultimo dei quali quello fornito dal Fondo monetario internazionale. Iniziando finalmente le grandi opere, spesso pagate totalmente ma mai iniziate dal Governo precedente, finite nella rete della corruzione, ma anche continuando la politica dei sussidi per mantenere una pace sociale continuamente messa in pericolo dalle proteste dei gruppi piqueteros, che quotidianamente bloccano il traffico a Buenos Aires e in altre città. Gruppi, pare uno scherzo, che sopravvivono proprio grazie agli aiuti che ricevono dallo Stato sotto forma di sussidi, trasformando quella del militante delle proteste in una professione con tanto di cassa mutua.
Insomma, pur se è difficile la ripetizione del 2001, anche perché gli aiuti internazionali questa volta ci sono e con prestiti non certamente onerosi negli interessi, la situazione generale si è dimostrata di una fragilità assoluta, che, come succede in questi casi ai Paesi emergenti, è esplosa alla prima crisi internazionale, rivelando la fragilità di un dicastero che purtroppo non ha che solo poche figure di spicco nel suo organico e che nel recente passato ha licenziato quelle che stavano operando con successo nei rispettivi campi d’azione. E’ il caso dell’Ad di Aerolineas Argentinas, Isela Costantini; dell’ex ministro dell’Economia, Pratt Gay; e dell’ex presidente del Banco Nacion, Carlos Melconian.
Proprio Melconian ha sostenuto che “bisogna usare ogni mezzo per domare l’incendio”, consigliando a Macri di operare dei cambiamenti all’interno del suo esecutivo: decisione che sta per essere presa nelle riunioni che incessantemente si susseguono alla Casa Rosada, sede del presidente. Nel mirino, questa volta, c’è il responsabile del dicastero economico, Nicolas Dujovne, ma anche il capo gabinetto della presidenza, Marcos Peña, che con il politologo ecuadoregno Duran Barba è stato il responsabile delle principali decisioni governative dal 2015 in poi.
Ma in tutto questo panorama emerge anche un dato inquietante: come a maggio, l’accelerazione che ha provocato la corsa alla ricerca di dollari è stata provocata da un gruppo di banche che ha dato inizio all’operazione. Nell’ordine sono il Banco Macro, quello di Galicia, il Banco di Santa Fè, di Entre Rios, di San Juan e sopratutto quello di Santa Cruz. Quindi, al di là della situazione internazionale sfavorevole e degli evidenti errori del governo, la miccia che ha provocato l’esplosione della crisi è stata accesa volutamente con una tempistica alquanto sospetta. E che si collega allo scandalo della Tangentopoli argentina, denominata “Cuadernopolis” per i dati scritti su quaderni da parte di Oscar Centeno, l’autista del numero due del ministero della Pianificazione, Roberto Baratta, che hanno rivelato la gigantesca corruzione degli anni di presidenza di Nestor e Cristina Kirchner. Ormai la fila dei pentiti che si mettono a disposizione del giudice Bonadio e del magistrato Stornelli che conducono le indagini è lunghissima. Lo scandalo, quindi, si allarga, coinvolgendo non solo il mondo imprenditoriale, ma anche e sopratutto quello politico e finanziario.
Ora Macri si trova solo in vista delle elezioni del 2019, che rischiano di essere disastrose per la sua continuità politica: deve decidersi e portare a un cambiamento radicale nello scacchiere politico di un Paese che per risorgere deve imparare a essere una vera democrazia fedele all’ideale repubblicano, ma sopratutto, in questa emergenza, appoggiarsi a una sorta di Costituente che comprenda tutte le forze che vogliono favorire una svolta nel Paese. Altrimenti l’Argentina rischia di confermarsi quel “Sogno eterno” che continua a essere da 70 anni circa.