“Storta va, diritta viene”, dicevano i nonni. E probabilmente l’avrà detto anche qualche giovanotto ad Amazon Italia, ieri l’altro, quando ha saputo del progetto di Luigi Di Maio, vicepremier e ministro del Lavoro, di vietare le aperture domenicali dei negozi. Quel che è andato “storto” ad Amazon è stato l’accordo svogliatamente firmato il 15 dicembre dell’anno scorso con l’Agenzia delle Entrate, in virtù del quale il colosso americano ha accettato di pagare al fisco un “forfettone” di 100 milioni di tasse arretrate e stop, un “accertamento con adesione per risolvere le potenziali controversie relative alle indagini fiscali, condotte dalla Guardia di Finanza e coordinate dalla Procura della Repubblica di Milano, relative al periodo tra il 2011 e il 2015. Gli importi sono riferibili sia ad Amazon Eu che ad Amazon Italia Services”, come recitava un comunicato stampa.
Ebbene. Se questa “batostina” (ben poco, rispetto a quanto Amazon avrebbe dovuto pagare davvero!) è andata storta, la scelta di Di Maio è andata dritta a vantaggio degli interessi di Amazon: continuare a spostar via dai negozi fisici gli italiani, convincendoli a comprare sempre più generi di consumo presso le sue piattaforme e-commerce.
Già: perché è questa la sensazione più diffusa sull’annuncio di Di Maio. È come una pentola senza coperchio. Bella, anche: ma inadatta a cuocere ciò che il ministro sperava. Perché se e finché il nostro Paese – possibilmente concertandolo a livello europeo, perché a livello nazionale non funziona – non troverà il modo di costringere Amazon e gli altri – tutti i cosiddetti “over the top”, come Amazon, Facebook e gli altri – a pagare le tasse dove fanno il loro business, come tutti i comuni mortali, non avrà risolto niente. Non avrà, soprattutto, annullato le clamorose asimmetrie competitive tra le attività economiche tradizionali – che pagano tasse, devono comprare licenze d’esercizio ed applicare contratti di lavoro regolari – e quelle della “platform economy”, che vivono in una sorta di costante dumping legale.
Dunque, se davvero il governo giallo-verde imporrà la chiusura del 75% degli esercizi che ormai restavano sempre aperti la domenica, la conseguenza più concreta è che nuove frotte di consumatori elettronici si scaraventeranno in rete a fare acquisti. Togliendo clienti ai negozi fisici. E togliendo all’erario ingenti fette di introiti. Detto questo, che peccato! Non è scritto da nessuna parte, in nessun codice e in nessun testo canonico, che lo Stato non debba ingerirsi dei costumi lavorativi liberamente concordati tra le parti sociali di un settore, datori di lavoro di qua e sindacati di là, se sono costumi socialmente dannosi. Ci sono tanti ambiti in cui lo Stato interviene per sovrastare e anche annullare la libera volontà degli individui: quella di correre a 200 chilometri all’ora in auto in città, per esempio, una libera volontà inibita dai semafori; o quella di comprare stupefacenti e dividerli con gli amici… E tanti esempi si potrebbero trovare di azioni spontanee degli individui che lo Stato proibisce o contiene. Anche quella di lavorare troppo, scriteriatamente, per guadagnare sempre di più o – peggio – per non vedersi licenziare dai datori di lavoro.
Come ben dice Domenico De Masi, in generale l’esigenza delle società contemporanee sviluppate è – e dev’essere – quella di lavorare tutti meno, non di più. Ciò in cui la ricca Germania locomotore d’Europa sta investendo la sua enorme ricchezza da cambio interno fisso è il tempo libero: l’orario medio effettivo di lavoro nelle imprese tedesche rasenta ormai le 35 ore. La produttività che automazione e organizzazione e cambio stanno portando alle imprese di Frau Merkel viene in parte investita in competitività (prodotti sempre migliori a prezzi sempre più attraenti), ma in parte anche in minor lavoro (attenzione: minor lavoro prestato a fronte di salari pari!). Un modo per prepararsi a quando la maggior parte delle funzioni aziendali ancora “umane” saranno robotizzate.
È giusto quindi che Di Maio o comunque un governante dei nostri tempi – che voglia guardare al futuro – discuta di tempo libero. Con buona pace dei liberisti che si stracciano le vesti millantando un rischio, che non c’è, di crollo dell’occupazione nel commercio, senza pensare che lavorare 4 domeniche al mese con contratti a termine (a questo inquadramento si riduce di solito il surplus occupazionale generato dalle aperture domenicali libere) non è poi chissà che occupazione: semplicemente, non basta per campare.
E dunque? Una volta di più, il governo SalviMaio sembra tendere a fare malamente cose potenzialmente giuste. Resta da capire se gli elettori, soprattutto grillini in questo caso, saranno più gratificati dal giusto principio enunciato (“la domenica si lavora meno!”) che depressi dalla lacunosità del provvedimento che non cerca in alcun modo – ma forse anche volendo non ci riuscirebbe – di tagliar gli artigli agli “Over the top”. Altrimenti detti “Over the tax”.