Sotto l’ombrellone accanto al mio, su una splendida spiaggia nei dintorni di Siracusa, due famiglie trascorrono una giornata tranquilla delle loro vacanze. Sono evidentemente amici: i genitori parlano tra loro, uno dei due padri in un italiano dall’accento tedesco, l’altro gli offre una bibita al chinotto mentre le mogli si alzano e tornano verso casa, a preparare il pranzo. I figli, tra gli otto e i dodici anni, giocano sulla battigia, capendosi più a gesti che a parole. La bimba italiana, quando l’uomo rivolge qualche battuta in tedesco al proprio figlio, gli chiede cosa si siano detti. Fatto sta che dopo mezz’ora, sulla spiaggia, campeggia un castello di sabbia articolato e imponente, con gallerie, ponti, un fossato pieno d’acqua ed edifici collegati tra loro.
Penso che quei ragazzi potrebbero essere miei alunni: li immagino a settembre, finita l’estate, coi loro quaderni puliti seduti nei banchi a ricominciare la scuola. Li ammiro, ma non solo io: anche la gente che, passando di lì quando han lasciato la spiaggia, dice “Ma questo castello è un capolavoro!”.
Li guardo mentre rileggo un libro che ho dato ai miei alunni e con cui inizierò il lavoro dell’anno. Li guardo e provo a staccarmi da loro per pensare a me.
Il più grande scava le buche, chiede al piccolo di portare dell’acqua e lui col secchiello fa avanti e indietro dal mare. Le bambine si occupano delle formine, fanno le torri e rendono ferme le mura, le lisciano con le mani, portano stecchi dagli arbusti sopra la spiaggia per fare un ponte.
Li guardo, giocano insieme. E insieme le loro mani donano al mondo il castello più bello di tutta la spiaggia.
Tra giugno e luglio ho letto diversi articoli di genitori, insegnanti, ragazzi, giornalisti che dicono sì oppure no (e se dicono sì dicono anche come dovrebbero essere) ai compiti delle vacanze. C’è chi li copia, chi non li fa, si sostiene, ma pochi dicono a cosa e perché possano o non possano essere utili. Posto che penso sia una questione importante e che riguardi da molto vicino la professione docente e che a lei strettamente competa (non ad altri, non me ne si voglia), ci sono cose che quel castello di sabbia in riva al mare mi insegna, radici sinuose che si infilano sotto il terreno della didattica tutta e in cui scavano a fondo per sostenere la vita del tronco e delle sue foglie.
Sono tre cose semplici, forse banali, ma a cui credo si debba far spazio nelle lezioni, nella gestione, nelle riunioni e in tutto ciò che la scuola prevede.
Primo: è l’opera comune che mette insieme persone diverse, siano esse alunni, famiglie, insegnanti e dirigenti. Non è esperienza sporadica quella di un consiglio di classe in cui una situazione difficile e complicata costringe i docenti ad essere uniti, a porsi domande condividendo pensieri, tentativi e strategie; a rimettersi cioè sempre in gioco. È nelle classi che più mi hanno messo alla prova che ho fatto le esperienze più belle anche di compresenza, quelle classi dove il bisogno impellente che avevamo di fronte ha rotto il solipsismo geloso che spesso si vede negli insegnanti e ha guidato le linee comuni.
Secondo: sono i vincoli e le risorse che abbiamo a dettare il lavoro e a sviluppare la creatività, nostra e degli studenti. Se quelle bambine non avessero avuto il bambù a portata di mano, forse il loro castello non avrebbe avuto un bel ponte, e se le mie classi fossero state classi “perfette”, avrei forse dormito sonni tranquilli ma non avrei provato il gusto e il piacere di provare a cercare un modo nuovo e originale di far apprendere; sarei sempre uguale a me stessa e non avrei maturato l’idea che sia più giusto parlare, per ciò che abbiamo a disposizione nel corso dell’anno e nel lavoro, di opportunità: tutto è occasione per fare un passo, così come è, non diverso. Non devo aspettare che cambi: così come è mi interroga e mi sprona a cercare le soluzioni. Ecco cos’è davvero un “problema”: qualcosa che è posto di fronte a me e mi chiede qualcosa. Come lo costruisco, io, il mio ponte?
Terzo: sfido io che i ragazzi copiano i compiti se i compiti che gli insegnanti gli danno glielo permettono. Ho visto, lì sulla sabbia, qualcosa di nuovo e originale. “Facciamo un castello”: questa proposta avrebbe potuto avere molteplici forme di soluzione, e allora è importante quale domanda si pone, se apre strade o se si aspetta un prefabbricato come risposta, non certo un castello sulla spiaggia del mare.
Intanto trascorre l’agosto, e tra il fermento sulle immissioni, i vaccini, la legge che in Francia vieta in classe i cellulari, mi fermo a guardare i bambini giocare.
È un compito delle vacanze anche per me, questo. Lasciare che in tempo d’estate quello che vivo e che vedo affondi in me le sue radici e rinnovi, rigenerandolo e aprendo orizzonti, anche il lavoro che come insegnante a settembre riprenderò nelle sue diverse sfaccettature, in classe coi miei studenti e non solo. Chissà quanti di loro un castello lo han costruito. E chissà quale castello saremo chiamati con loro a costruire, docenti, insegnanti e adulti di tutta la scuola.