“Aspetto di sapere il prezzo del nuovo Apple Watch, cado a terra e lui chiama i soccorsi!”: è in questa, e molte altre simili, battute che stanno imperversando sui social la cifra dell’anomalia introdotta una volta di più dalla Apple nel mondo digitale “di consumo”, che non ha cioè nulla a che vedere col vero progresso e la vera ricerca – vive di soluzioni individuate altrove e per altri scopi – ma incide tanto sul nostro modo di vivere, relazionarci e comunicare.
La rivoluzione degli smartphone è ormai qualcosa di acquisito, ci viviamo immersi. I sette modelli disponibili nell’offerta Apple – rinfrescata ieri dalla presentazione annuale nel quartier generale di Cupertino, quello costruito a forma di stazione spaziale, tanto per volare bassi – sono bellissimi e potentissimi. Il prezzo stellare del modello-top, l’iPhone Xs Max, che costa in Italia circa 1.700 euro, non deve scandalizzare: potranno permetterselo in pochi, ma con il prodotto meno caro della serie, che è pur sempre un eccellente apparecchio, si continuerà a spendere un terzo di quella cifra se non meno: sono i modelli Xr, 7 e 8, per i patiti.
Nell’insieme, dunque, gli annunci di quest’anno non marcano la storia come fu chiaro che stava segnandola il primo lancio dell’iPhone. Quel che però ribadiscono in modo perentorio, e in questo senso nuovo, è la convinzione di Tim Cock e dei suoi di essere al centro dello sviluppo, una convinzione confermata dalla pervasività delle nuove applicazioni – come quella della salute – e dalla moltiplicazione di funzioni che non nascono da bisogni constatabili ma pretendono di precorrerli. Secondo un vecchio adagio della Silicon Valley, per cui sono pronte nei laboratori “molte soluzioni in cerca di problemi”.
Ricordiamoci che la Apple non riveste alcun magistero, né morale né culturale, presso nessuno, per quanto pretenda di proporsi in questi termini. Ricordiamo che la Apple è la stessa azienda, diretta dallo stesso capo, che rifiutò di consegnare all’Fbi i dati dell’iPhone del terrorista di San Bernardino e che ha poi ceduto su tutta la linea alle pretese anti-privacy del regime cinese pur di non rinunciare all’accesso nel ricchissimo mercato regolato dal presidente Xi Jiping.
La religione della mela morsicata – sotto una fitta coltre di enunciati valoriali e ideologici – è esclusivamente quella del profitto, e fa specie scriverlo dalla tastiera di un efficientissimo Mac con in tasca un ottimo iPhone, ma la qualità dei prodotti non salva l’anima di chi l’ha venduta al diavolo di una crescita infinita che può solo inverarsi nella tendenza al monopolio e alla simulazione propagandistica dei bisogni.
La Apple è e resta un’azienda che ovunque riesca, almeno per la ricca componente immaterale del suo business, tende a non pagare tasse. La Apple è un’azienda che ha sfruttato a man bassa il social dumping delle produzioni delocalizzate in Oriente e che ha dovuto subire per questo il diktat di Trump riportando negli Stati Uniti alcune produzioni.
Non è un’Accademia di filosofia, è una ditta di elettrodomestici. Ma il problema della Apple siamo noi. Noi americani, che con troppo lunghi intervalli di tempo ci ricordiamo di quanto sia importante impedire la nascita dei monopoli. Noi cittadini del mondo, quando confondiamo i consumi con le dipendenze. Noi uomini etici, quando perdiamo di vista il diritto-dovere di dosare qualsiasi tecnologia, come i semafori e i tutor dosano i percorsi e la velocità delle automobili.
L’insidiosità dell’Apple pensiero si individua però, in questo giro di presentazioni, anche in un altro elemento. Il colosso ha sottolineato con enfasi che questa nuova generazione di apparecchi riesce a svolgere molte attività sofisticate, come ad esempio il riconoscimenti facciale, senza “andare in cloud”, come si dice in gergo, cioè senza dover trasferire dati verso sistemi computerizzati centrali. Questa scelta nasce da due fattori: la necessità di risparmiare connettività, e quella di poter accedere a quelle funzioni anche in territori con connettività scarsa. Niente di male. Poi Apple aggiunge che in questo modo si riduce il numero di dati in circolazione, a beneficio della tutela della privacy. E qui casca l’asino. Ma come? Negli ultimi anni tutti i grandi operatori del digitale, Apple compreso, hanno ripetuto fino a sfinirci che andare in cloud non metteva minimamente a repentaglio la privacy, e adesso ci dite che è meglio?
La verità è un’altra, che cioè quell’abominio della net-neutrality – per cui i colossi del web pagano tariffe flat come noi per accedere alla Rete – sta finendo, e quindi probabilmente tutti noi pagheremo di più per accedere al web, ma proprio tutti: anche i vari Google e Facebook, che pagheranno anzi molto di più. E dunque se andare in cloud, connettendosi, costa di più, si fa costare di più gli smartphone che ti permettono di non andarci. Dicendo, ma solo oggi, che è un vantaggio tecnico e di privacy, dopo aver detto il contrario per cinque anni. Questa è “ragione aziendale”, ricordiamocelo.