Per Luca Doninelli, autore di un’audace riduzione teatrale del capolavoro di Victor Hugo di cui si è parlato in un seguitissimo incontro al Meeting di Rimini, la genesi di ogni romanzo coincide con il dilatarsi di un fatto accaduto in un istante, l’espandersi di un evento che attraversa e abbraccia l’intera trama dell’universo: così è anche per I miserabili di Victor Hugo, la cui vicenda affonda le radici in un evento fondamentale, piantato come un seme nel mattino della storia.
Il seme de I miserabili è l’evento che investe Jean Valjean, un uomo disperato a cui la “giustizia” per diciannove anni ha rubato la libertà, condannandolo ai lavori forzati, spogliandolo del nome per ridurre la sua esistenza a quella di una bestia: o peggio, per far di lui un numero tra i numeri, 24601. La colpa: il furto di un tozzo di pane per sfamare la sorella e i figli di lei. Così, se “Jean Valjean era entrato in galera singhiozzando, ne uscì impassibile. Vi era entrato annichilito: ne uscì ribelle”.
Il protagonista del romanzo di Hugo – come le figure di Enjolras, di Marius e degli altri giovani rivoluzionari – incarna una domanda di giustizia disperata che non avverte risposta e che finisce per consumarsi nel fuoco dell’odio. Sono questa miseria e l’esigenza di riscatto che da essa trae origine il terreno che lo scrittore scorge intorno a sé e che offre come sfondo alle vicende del romanzo. Ma ecco, in questo terreno, il seme: il vescovo di Digne, monsignor Myriel, dopo aver ospitato e sfamato Jean Valjean si vede sottrarre da lui l’argenteria e decide tuttavia di non farlo arrestare. Anzi, senza esitazione aggiunge al bottino due candelabri d’argento: “Jean Valjean, fratello mio, voi non appartenete più al male, ma al bene. Ho comprato la vostra anima. L’ho distolta dai cattivi pensieri, dallo spirito della perdizione, e la offro a Dio”.
Accade l’inimmaginabile: di fronte alla colpa del ladro, la risposta del vescovo non si limita al condono, alla semplice assoluzione. Il dono dei candelabri ne nasconde infatti uno più grande, quello della scoperta di una libertà insperata, figlia di uno sguardo d’amore gratuito che eccede ogni umana misura e che spingerà Valjean a intraprendere il suo cammino di umiliazione, di diminuzione continua e di spoliazione – questa volta volontaria.
Di qui, ha confessato l’attore Franco Branciaroli, nasce uno dei primi problemi che si pone alla resa scenica del romanzo di Hugo: lo spazio che l’autore francese concede alle battute del protagonista è infatti molto limitato e la presenza di questo si sottrae alla narrazione, talvolta anche per centinaia di pagine. È questo il meraviglioso paradosso del protagonista de I miserabili, che sembra qui contravvenire la prima vocazione del teatro, quella a far vedere, a mettere in mostra le sue personae: quanto più si avvicina alla grandezza, infatti, tanto più Valjean è portato a farsi piccolo; più accoglie il ruolo del protagonista e più si trova a cedere il passo all’iniziativa di un Altro, seguendo le tappe di una nuova traiettoria che si offre ora al suo cammino.
Nel romanzo non c’è spazio per un affondo psicologico completo, per la giustificazione di un’evoluzione intellettuale (è senza un esplicito e credibile sviluppo, nota ad esempio Doninelli, che Valjean abbandona i panni del carcerato e assume quelli del sindaco): l’interesse dell’autore si concentra piuttosto sulle vicende e i personaggi che investono il protagonista lungo il suo percorso, rievocando la promessa di quel primo incontro. Si avvicendano così sulla scena le diverse figure di Fantine e della piccola Cosette, dei mostruosi Thénardier, di Eponine e di Javert (personaggi cui l’autore, forse avvertendo in loro una vicinanza, dedica molte e commosse parole), nonché di Marius. Il suggerimento del drammaturgo è che sia proprio quest’ultimo, e non Javert, a dar vita al “duello finale” con Jean Valjean.
Nel suo percorso di spoliazione, di fronte all’amore dei due giovani, Valjean accetta la sua ultima, più grande perdita: quella di Cosette, alla cui custodia aveva dedicato tutta la vita e che rappresenta per lui l’affetto più profondo. Rinunciare a Cosette significa restare solo, nudo come all’inizio: abbandonare tutto per accogliere su di sé la croce del miserabile. Ma ecco, ora che l’uomo è spogliato di tutto e si avvicina al termine della vita, acquista un’evidenza splendente il cuore della novità introdotta in quel primo incontro: in quel seme piantato nel mattino, nella gratuità di quello sguardo, era contenuto un dono così grande, che – come anni prima era accaduto al monsignor Myriel – ora, Jean Valjean, non può che voler dire il suo estremo “sì” e farsi strumento di quella grazia che sola risponde al grido dell’uomo.