Le strategie commerciali di Donald Trump sembrerebbero essere caratterizzate dalla sua proclamata diffidenza verso i trattati generalizzati, come l’accordo di Parigi sul clima, il Tpp (Trans-Pacific Partnership) e perfino l’Unesco, da cui ha ritirato l’adesione Usa. In un precedente articolo avanzavo l’ipotesi che questa avversione per gli accordi globali derivasse dall’implicito riconoscimento che gli Stati Uniti non sono più in grado, come un tempo, di egemonizzare queste grandi strutture. In accordi bilaterali, o comunque più limitati, è invece possibile per Washington far valere il suo peso, giocando di volta in volta sui vari aspetti, economici, finanziari, militari. Su questa linea e per ottenere condizioni più favorevoli agli Usa, Trump sta mettendo in discussione, per esempio, il Nafta con Messico e Canada, le relazioni all’interno della Nato o quelle con l’Unione Europea.
Diversa la strategia del maggior antagonista, la Cina, che presta molta attenzione alla partecipazione nelle organizzazioni globali, da cui è stata a lungo tenuta in disparte, per ragioni politiche, ma non solo. Pechino ha sempre ispirato diffidenza per la “disinvoltura” delle sue pratiche commerciali, come dimostrano le attuali polemiche sul suo scarso rispetto della proprietà intellettuale, che coinvolgono anche l’Ue. La Cina è entrata nella Wto, l’Organizzazione mondiale del commercio, nel 2001 tra molte polemiche, anche per il timore che le sue politiche commerciali eterodosse, tipo dumping, potessero avvantaggiarla scorrettamente nei confronti di altri Paesi. Una preoccupazione espressa anche sulle colonne del Sussidiario, per esempio da Giulio Sapelli, che così si esprime in un articolo dello scorso marzo: “…per decisione di Clinton, e quindi della finanza sregolatrice che governa la classe politica Usa con un sistema lobbistico unico al mondo, si consentiva alla Cina di entrare nella Wto senza di fatto contropartita alcuna. Le conseguenze sono state terribili. Il mondo è stato invaso da merci a bassissimo contenuto di valore e ad alta aliquota di distruzione dell’ambiente e della sostenibilità. La deindustrializzazione era l’inevitabile conseguenza di questa inaudita misura dettata solo dall’interesse finanziario e speculativo dei manager stockopzionisti delle grandi banche d’affari. Si ponevano le basi per la distruzione della stessa potenza Usa”.
L’attenzione della Cina ai trattati globali si accompagna a un’attiva partecipazione in associazioni commerciali ed economiche a livello regionale. Probabilmente entro la fine di quest’anno, potrebbe essere raggiunto il definitivo accordo sul Rcep (Regional Comprehensive Economic Partnership), il trattato di libero scambio tra i membri dell’Asean (Association of South-East Asian Nations) — Birmania, Brunei, Cambogia, Filippine, Indonesia, Laos, Malaysia, Singapore, Thailandia, Vietnam — e altri sei Paesi: Australia, Cina, Corea del Sud, Giappone, India, Nuova Zelanda. Un raggruppamento di 16 Paesi, di cui fanno parte sette Stati membri del Tpp, che potrebbe porsi come alternativa al trattato orfano degli Stati Uniti. L’atteggiamento di Trump sul Nafta, inoltre, potrebbe spingere Canada e Messico ad aderire al nuovo trattato e a questo punto la prospettiva diverrebbe obbligata anche per gli ultimi due membri del Tpp, Cile e Perù. L’Rcep diverrebbe così un Tpp allargato (20 membri invece che 12), senza l’ingombrante presenza degli Stati Uniti, ma con quella, non meno ingombrante, della Cina e dell’India.
Accanto a questo tentativo di sostituire gli Stati Uniti nell’area del Pacifico, la Cina sta rivolgendo particolare attenzione anche all’ Eaeu (Eurasian Economic Union), l’accordo di libero commercio guidato dalla Russia e di cui fanno parte Armenia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan. Trattative su una possibile adesione sono in corso con Moldavia, Tagikistan e Uzbekistan, mentre è stato firmato un accordo di libero scambio con il Vietnam, che mantiene con la Russia stretti rapporti fin dall’epoca sovietica. Come si ricava da una approfondita analisi pubblicata da Russia Briefing, l’Eaeu è molto importante per lo sviluppo del progetto detto Obor (One Belt, One Road), la nuova “via della seta” verso l’Europa, fondamentale per la Cina. I rapporti tra Cina e Russia includono anche accordi bilaterali piuttosto interessanti, come quello per la costruzione di un aereo passeggeri, il CR929, progettato come diretto concorrente di Airbus e Boeing, che dovrebbe veder la luce nel 2013 con inizio delle consegne nel 2026.
Importanti sono poi gli accordi per l’apertura di nuovi corridoi di trasporto internazionali, denominati Primorye 1 e 2, che permetteranno un’interazione economica tra Nord-Est cinese ed Estremo Oriente russo, focalizzati sul porto di Vladivostok e sul ponte ferroviario in costruzione sull’Amur. La collaborazione russo-cinese investe anche lo strategico settore energetico con il progetto “Power of Siberia”, un gasdotto di circa 2200 chilometri che porterà il gas siberiano fino al confine cinese. La Gazprom prevede l’inizio delle forniture nel 2019 e la fornitura alla Cina di 38 miliardi di metri cubi all’anno, pari a più del 10% del mercato cinese.
Un altro importante progetto nel settore è la costruzione di un impianto per la liquefazione del gas naturale nella penisola artica di Yamal, che vede insieme ancora Gazprom con la società petrolifera statale cinese, Cnpc. Al progetto partecipa anche la francese Total, presente anche in un’altra iniziativa con la Russa Novatek, l’Arctic LNG-2.
Questa panoramica sugli accordi economici confermano il carattere globale dell’espansionismo cinese e la tradizionale doppia vocazione russa verso l’Europa e verso l’Asia. Sarà bene tener presente che economia e politica vanno spesso, o quasi sempre, a braccetto.