È per aver preso coscienza dei rischi di una possibile guerra commerciale globale che la Cina esorta gli Usa a smettere di porre in essere ricatti con minacce plateali di un ulteriore aumento dei dazi sulle loro merci. E così pure l’Europa nei confronti di Trump. Il nodo cui la Cina si riferisce è quello che il presidente Donald Trump sta ipotizzando circa l’imposizione di una tariffa del 25%, anziché l’attuale del 10%, su un montante valore pari a 200 miliardi di dollari di beni e servizi cinesi importati. Il tutto per contrastare la logica commerciale, ritenuta sleale, di Pechino verso gli Usa.
La similitudine tra Cina ed Europa sta nel fatto che entrambe hanno formalmente richiesto agli Usa di affrontare tali delicate questioni al tavolo dei negoziati prima di “scatenare l’inferno”. In America il giro di vite contro la Cina ha preso non solo la strada nell’amministrazione Trump, bensì sta coinvolgendo direttamente anche il Congresso, il quale ha approvato, nella legislazione annuale dei budget, anche le misure dirette a contrastare l’influenza di Pechino, in particolar modo indirizzate verso gli investimenti e le tecnologie – ciò sulla base di criteri preventivi per la sicurezza nazionale.
A tutto questo si lega anche l’incontro alla Casa Bianca tra Donald Trump e Jean-Claude Juncker che per l’Europa è servito a disinnescare, o almeno a diminuire, le tensioni commerciali tra i due contendenti. Fatto che rischiava (rischia) di inclinare in maniera irreversibile le relazioni economiche, commerciali e finanziarie. L’obiettivo comune è quello di zero tariffe, zero barriere commerciali, zero sussidi su tutti i beni industriali fuorché le auto. Base di tale incontro è il fatto incontrovertibile che l’Europa e l’America sono e devono essere alleati e non nemici: quindi, solo un lavoro comune potrà portare a benefici per l’economia e i lavoratori di entrambi i poli.
A incentivare tale sforzo è stato anche il fatto che Bruxelles, come la Cina, non è rimasta con le mani in mano. Infatti alle iniziali tariffe su acciaio e alluminio imposte da Trump si è immediatamente risposto colpendo marchi simbolo del “made in Usa” quali: i jeans Levi’s e le moto Harley-Davidson. Dazi che avrebbero portato a colpire merci importate dagli Stati Uniti per un valore di oltre 20 miliardi di dollari.
Collegandoci ora al mercato italiano si vede che questo accordo causa non pochi problemi al made in Italy. Sono in gioco, infatti, oltre 40,5 miliardi di esportazioni italiane negli Usa per alimentari e vino che ne rappresentano il 10% del valore. È interessante notare che nonostante le odierne tensioni commerciali le esportazioni italiane in America hanno fatto registrare un aumento complessivo del 18,8% a giugno rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Gli Usa si collocano al terzo posto tra i principali “Italian food buyer” dopo Germania e Francia ma prima del Regno Unito.
Le maggiori preoccupazioni in queste ore sono, però, sicuramente quelle tedesche: infatti Berlino è in trepidazione per il piano di Trump di imporre dazi per 200 miliardi di dollari sulle auto straniere essendo le case automobilistiche tedesche le prime a esserne colpite. Se è vera tregua oppure inizio di una pace consolidata, lo si potrà vedere solo nelle prossime settimane. Oggi esiste un confronto diretto tra la dottrina protezionistica dell’America First e i valori reali del globalismo e del multilateralismo incarnati, di fatto, dall’Unione europea: tutto ciò si inserisce in dinamiche in movimento continuo e dal carattere prettamente politico.
In definitiva, è importante porre l’accento anche sul fatto che Trump, in vista delle elezioni di midterm nel prossimo novembre, potrebbe convincersi che la linea dura e nazionalista paghi di fatto per sostenere il partito repubblicano, tenuto anche conto dell’avanzare un po’ ovunque dei movimenti e partiti populisti.