Dopo l’incontro Orbán-Salvini è stato ulteriormente denunciato il risorgere in Europa del nazionalismo e del rischio bellico che tradizionalmente lo accompagna.
Tuttavia, non pare francamente credibile che l’Europa sia sull’orlo di un conflitto militare interno ai suoi confini. E non sembra ragionevole né giusto chiedere ai cittadini europei di votare per Orbán o per Macron. Una larga parte dell’opinione pubblica, compreso chi scrive, non si riconosce né nell’autoritarismo dell’uno né nella politica dell’altro (ma si schiera certamente per il sistema istituzionale francese e non per quello ungherese) ed è largamente stufa del dover sempre scegliere in condizioni emergenziali e necessitate. Non vi è infatti molta differenza tra la logica della torre (chi butteresti giù?) e la logica del doversi obbligatoriamente e sempre tappare il naso.
Per capire che cosa sta succedendo occorre farsi una domanda: chi comanda in Europa? Il primo realismo da riattivare è legato alla consapevolezza che non esiste al mondo una struttura di governo, cioè di esercizio del potere con gradi diversi di legittimità, che sia immune da un’egemonia.
Non esiste un governo che non sia espressione di una politica e di una minoranza che ne abbia conquistato la leadership. La natura dei trattati, però, non mette in campo per il potere europeo soggetti politici, cioè partiti, ma Stati.
In Europa, per le ragioni e i fallimenti noti, le persone non votano le linee politiche dell’Unione. Non esiste un fronte democratico europeo che si confronti elettoralmente con un fronte federalista, o con un fronte socialista; esistono Stati che si confrontano e accordano. In Europa, il nazionalismo è il presupposto per agire politicamente; si rappresentano le patrie non i cittadini.
E piaccia o non piaccia, l’Europa è fondata sull’accordo o sulla dialettica tra Francia e Germania, con una prevalenza della seconda sulla prima per il forte influsso esercitato sulle politiche monetarie. Il modello di questa egemonia è lo Stato di ottocentesca memoria, fondato su forti centralizzazioni, ma la società europea, lentamente, ha scorto la natura autoritaria del processo e ha dissotterrato le bandiere nazionalistiche come antidoto. Il paradosso è proprio questo: il nazionalismo egemonico viene riscoperto come cura del centralismo europeo anziché riconosciuto come suo parente stretto. La parte del manifesto di Ventotene che descrive gli stati totalitari è ancora parzialmente attuale, perché denuncia che l’eredità del totalitarismo e della guerra, non è poi stata, per reazione, un’Europa federale dei popoli, liberale, libertaria e solidaristica, ma quella dei vecchi Stati, ostili a ogni cambiamento, orientati più all’equilibrio delle forze che alla giustizia e al diritto, come ha dimostrato drammaticamente e vergognosamente la crisi catalana.
Questo è un primo punto su cui occorrerebbe discutere: non si può essere antinazionalisti in Europa e centralisti in patria. Non si può esaltare e sacralizzare l’unità dell’Italia, celebrare la sua costituzione come una reliquia intoccabile e immutabile, ergersi a difensori della sacralità del tricolore, coniare una nuova ideologia di Stato come in qualche modo hanno fatto Napolitano e Renzi e poi, quando Salvini diviene da federalista — come era in principio la Lega — nazionalista, stupirsi e amareggiarsi del suo successo.
Quando si costruisce una simbologia nazionalista e se ne celebrano i riti; quando si teorizza di trasformare il partito della sinistra italiana nel partito nazionale italiano, ci si può stupire dopo se un’interpretazione di destra degli stessi valori ha successo? Vorrei dire che la sinistra italiana per competere con Salvini dovrebbe essere federalista, dovrebbe pensare un nuovo Stato, dovrebbe riconoscere le altre nazioni che l’Italia ingloba nel suo ordinamento, dovrebbe desacralizzare lo Stato, romperne le capacità rituali, ricondurlo alla sua dimensione funzionale al servizio delle persone, dovrebbe mettere fine al darwinismo competitivo tra regioni ricche e regioni povere nell’accesso alle risorse pubbliche, dovrebbe smontare i meccanismi di rafforzamento ulteriore delle regioni già forti, dovrebbe riscoprire il Mediterraneo, dovrebbe non usare più la vertigine che porta a governare la maggioranza attraverso la minoranza che ha un voto in più dentro la maggioranza.
Forse un punto di vista sardo può aiutare a esplicitare queste contraddizioni. Non si può da un lato proporre i referendum centralisti di Renzi, far finta di non vedere che esistono due Italie, quella del Nord con 34.200 euro di Pil procapite e quella del Sud e delle isole, con 18.200 euro, e un unico fisco ferocissimo che per il 68 per cento dei contenziosi perseguita cittadini con debiti verso lo Stato sotto i 20mila euro e poi chiamare a raccolta contro i nazionalismi: quale è l’ideologia di uno Stato accentrato, fiscalmente feroce e ingiusto, se non il nazionalismo? Non si possono svuotare gli aeroporti sardi perché si debbono riempire gli hub di Roma e Milano in nome dell’interesse nazionale italiano e poi pensare che il veleno di questo neomachiavellismo della ragion di Stato non si trasformi in nazionalismo con vittime e carnefici. Non è possibile tollerare che il 60 per cento delle servitù militari dell’Italia sia concentrato in Sardegna, giustificare tutto questo in nome della Repubblica e poi stupirsi della rinascita del nazionalismo: la Repubblica, come ha dimostrato la Commissione Scanu sull’uranio impoverito, ha avvelenato territori e condannato a morire innocenti sardi. Come si fa a giustificare l’ingiustificabile in nome della bandiera e poi stupirsi della rinascita del nazionalismo?
Insomma, il nazionalismo è veramente una brutta bestia che porta alla guerra, ma i mattoni etici e politici del nazionalismo sono intrinseci alla struttura dello Stato italiano. Si è realmente disponibili a mettere in discussione queste strutture o si lotta ancora una volta per sostituire un’egemonia politica su di esse con un’altra?