Non è facile, di questi tempi, nutrire a qualche forma di ottimismo. L’immagine di quel che resta del ponte di Genova sta lì a simbolizzare il vicolo cieco in cui si è infilato il Bel Paese. Le indagini della magistratura procedono con grande lentezza. Sfugge la ragione, a un mese dal disastro, di lasciare buona parte della scena intatta, a disposizione di una o più perizie. Davvero, nella stagione della realtà virtuale in cui si può ricostruire in pratica qualsiasi cosa dalle Piramidi in poi, è necessario conservare il luogo del delitto così com’era? Alzi la mano chi pensa che le indagini possano portare, nel tempo, alla scoperta di una qualche “verità” nascosta. È facile, al contrario, prevedere una marea di faldoni, sia elettronici che di carta, in cui andranno ad accumularsi perizie, prove vere o presunte, simulazioni, rivelazioni di segugi a caccia dello “scoop”. Tutte cose legittime, per carità, ma che non possono andare a scapito della esigenza primaria: far ripartire il porto, il polmone dell’economia di Genova dai tempi della repubblica di San Giorgio in poi.
Anzi, come accadde nell’Italia del ’76, in occasione del terremoto del Friuli, la disgrazia può essere l’occasione per rimuovere problemi di vecchia data e innescare una stagione feconda di crescita. Ma, ahimè, corre una grossa differenza: allora l’Italia guardava avanti, oggi il Paese sembra procedere in retromarcia. Si vuol tornare indietro sul fronte delle privatizzazioni senza aver rimosso una sola delle cause che hanno portato ad una crisi profonda del sistema. Davvero si pensa che l’Alitalia possa tornare agli anni Sessanta? O che, per qualche strana magia, Fincantieri possa mettersi a costruire ponti e strade? O che sia una buona idea quella di rispolverare salvataggio di aziende decotte come l’Italiana Autobus?
Nel frattempo, uno studioso di buona volontà prestato alla politica, il professor Michele Geraci, grande esperto di Cina, oggi sottosegretario al ministero dello Sviluppo economico, è stato mandato in missione a Pechino per aprire la strada a nuovi investimenti nelle infrastrutture. Peccato che il suo viaggio al seguito del ministro Giovanni Tria abbia coinciso con le esternazioni del ministro Toninelli e del vicepremier Di Maio sulla possibilità di nazionalizzare Autostrade per l’Italia senza indennizzo: nessuno aveva avvertito i due leader che la cinese Silk Road è da almeno un anno azionista di Aspi. Geraci ci ha messo una pezza, assicurando i mercati che qualsiasi nazionalizzazione avverrà dietro congruo rimborso.
Le schermaglie della maggioranza, che finora hanno peraltro consentito di raccogliere consensi, rischiano di portare a una paralisi operativa dalle ricadute rovinose da cui, senza alcuna invasione di campo, ci ha messo in guardia Mario Draghi. Ma al di là dei doverosi allarmi è ormai necessario che il fronte di chi paventa i danni del sovranismo, a Roma come a Istanbul, cerchi di individuare una strategia per uscire dal cul de sac dimostrando che gli italiani sono ancora in grado di costruire ponti, strade e far funzionare i mezzi pubblici senza attribuire ogni colpa all’Europa, che pure di guasti ne ha combinati, in Italia e altrove nella stagione dell’austerità. È l’invito che arriva da un grande studioso, Olivier Blanchard, già capo economista del Fondo monetario internazionale, tra i primi critici del modello economico imposto dieci anni per affrontare la recessione scatenata dalla crisi di Lehman Brothers.
Le terapie adottate, all’insegna della politica monetaria e fiscale, si sono tradotte specie nell’Europa mediterranea in disoccupazione provocata dalla crisi che, a sua volta, ha compresso i salari che a sua volta ha reso meno necessari investimenti in tecnologia e ridotto a zero, fino a pochi mesi fa, la crescita della produttività. Compressione salariale, disoccupazione e precarizzazione, aggravate dagli effetti della globalizzazione, hanno a loro volta prodotto malessere sociale e rivolta politica, cioè la miscela all’origine della stagione del rancore, l’unico sentimento che anima gli elettori di casa nostra, convinti che è stato loro tolto qualcosa di cui avrebbe comunque diritto. È un meccanismo perverso che ha ormai minato la solidarietà sociale, su cui si è innescata la questione migranti, la classica scintilla che ha fatto esplodere la polveriera.
Inutile farsi illusioni: non sarà facile venirne a capo. Per cominciare può giovare il recente lavoro di Blanchard. L’economista propone di finanziare con moneta appositamente dedicata un incremento della spesa pubblica pari all’1 per cento del Pil, con l’obiettivo di provocare in 5 anni un aumento dell’inflazione del 10 per cento complessivo, ovvero tassi reali di 2 punti percentuali più bassi. In pratica le banche centrali potrebbero comprare (direttamente o finanziando il Tesoro) meno bond e più petrolio, acciaio, case, auto e tutto quello che si riuscirà a cartolarizzare.
“Proviamo a pensare cosa sarebbe successo — commenta Alessandro Fugnoli — se si fosse scelta questa strada dieci anni fa. L’inflazione sarebbe risalita più in fretta, la disoccupazione sarebbe stata riassorbita prima, le borse sarebbero salite meno e il malessere sociale e politico sarebbe più contenuto”.