Quando i genitori si separano e rompono la convivenza familiare, i figli sono sempre e comunque vulnerati nel loro bisogno fondamentale di appartenenza a una relazione amorevole e amorosa; cercare di ridurre il vulnus, garantendo loro rapporti familiari il più possibile completi e costruttivi è il desiderio e la scommessa di tutti gli operatori del settore, a cominciare dal legislatore che fin dal 1975 ha posto “l’interesse del minore” come criterio ultimo per qualunque decisione riguardante i figli. Ma questo interesse non è concretamente realizzabile se non attraverso il comportamento dei genitori e, in ultima analisi, attraverso la loro capacità (e libertà) di superare istintività e risentimenti reciproci o quanto meno di non rovesciarli sui figli.
Il ddl n. 735 presentato in Senato il 1 agosto 2018, primo firmatario il senatore Pillon (Lega), vuole concretizzare tale “interesse del minore” nell’affermazione decisa e sanzionata della necessaria “bigenitorialità”, ossia la pari responsabilità ed importanza di entrambi i genitori sia nella cura che nell’educazione di figli, dettando precisi limiti, suddivisioni ed obblighi che né le parti né il giudice possono evadere.
Ora, l’affido condiviso come misura da privilegiare era già stato introdotto con la legge n. 54/2006, ma, come riferisce la relazione introduttiva del ddl Pillon, non ha avuto una grande attuazione, visto che in Italia “l’affido materialmente esclusivo riguarda oltre il 90% dei minori”.
Sarebbe a questo punto opportuno chiedersi il perché di questa situazione “che non rispecchia la volontà del legislatore”.
Se il 90% delle pronunce è nel senso dell’affido esclusivo e per lo più alla madre, sarà perché i giudici sono retrogadi e vogliono distruggere la figura paterna, o non piuttosto perché le concrete situazioni non permettono una reale e serena co-gestione della prole? Oppure perché la cultura sociale diffusa, e con essa la maggioranza dei padri, alla fin fine, ritiene che i figli abbiano più bisogno dell’accudimento e della presenza materna? O, forse, perché sembra più complicato, per un padre single, riuscire ad organizzarsi per la cura quotidiana dei figli? La “volontà del legislatore” non deve forse fare i conti con la realtà culturale e sociale della nazione?
Diceva Arturo Carlo Jemolo (e la citazione è nella relazione introduttiva al ddl in esame) che la famiglia è un’isola che deve essere solo lambita dal diritto.
La cultura italiana della famiglia è un sentimento ancora radicato e riconosciuto come una risorsa peculiare del nostro Paese; l’omologazione ad altre, più frammentate ed individualistiche nazioni europee non mi sembra un miraggio interessante.
Non entrerei a gamba tesa nel mondo familiare: ad esempio, 12 giorni al mese minimo “obbligatorio” di permanenza e pernottamento presso uno dei due genitori, poniamo il padre (che il ddl vuole chiaramente promuovere), come possono conciliarsi con la frequenza scolastica in altra zona o altro comune, ovvero con gli impegni lavorativi di un lavoratore subordinato tenuto ad orari precisi? E la doppia domiciliazione dei figli come permetterà loro di non sentirsi provvisori ed ospiti in entrambe le case?
Più che dei “paletti” giuridici vincolanti, sembra necessario aiutare entrambi i genitori a capire l’importanza di una loro effettiva corresponsabilità per il bene dei figli; la legislazione ha indubbiamente anche un valore formativo e culturale, ma i tempi sono lunghi. La figura del mediatore familiare è in questo senso una proposta concreta, anche se onerosa (i relativi costi sono a carico della coppia); così il “piano genitoriale” che i genitori devono concordare, “a pena di nullità” (purché non si risolva in formulari prefabbricati e stereotipi).
Infine, l’assegno di mantenimento. L’abolizione dell’assegno di mantenimento pagato da un genitore (nella maggioranza dei casi il padre) all’altro per il mantenimento dei figli minori è un’applicazione della forte sottolineatura della bi-genitorialità di cui il Ddl si fa paladino: uguali doveri, uguali responsabilità, uguali diritti. Si indica come unica possibilità il mantenimento diretto dei figli, attribuendo a ciascun genitore specifici capitoli di spesa in proporzione alle proprie entrate; in sostanza nessuno dei due genitori dovrebbe gestire soldi dell’altro a favore dei figli.
Si potrebbe presentare qualche problema di fronte a una spesa imprevista; più semplicemente, immagino i bambini a doversi chiedere se un certo loro desiderio o bisogno sia di competenza del padre o della madre, a chi rivolgere una richiesta fuori dalla routine… I bambini poi, si sa, in genere si adeguano, e imparano a muoversi tra gli scogli dei rapporti tra adulti; certo, questo regime sottolinea ancora di più la loro situazione di figli di genitori separati, li costringe a fare i conti anche spiccioli con la duplicità di riferimenti.
Questa costruzione paritaria pone infine qualche perplessità a fronte del dato Istat del 48,5% di disoccupazione femminile: come a dire che quasi la metà delle donne italiane non hanno un’attività extradomestica retribuita, e, quindi, per lo più, non hanno entrate proprie. In effetti la scelta di non lavorare fuori casa per prendersi cura direttamente dei familiari, in particolare dei figli, continua ad essere un’opzione valutata e non solo subita; una condizione che tuttavia, in caso di separazione, con l’abolizione dell’assegno di mantenimento può venire pesantemente penalizzata. Se va evitata la rendita parassitaria a carico del coniuge — che, notoriamente, ha creato situazioni di reale indigenza per taluni mariti —, andrebbe anche evitato, nell’interesse proprio dei figli, che separandosi le madri siano costrette ad entrare nel mercato del lavoro rinunciando a quella funzione di cura della famiglia e della prole svolta fino a quel momento. L’equilibrio tra i due opposti è difficile, le situazioni concrete sono diverse e presentano ognuna aspetti singolari; la pretesa legislativa di regolarle tutte con un unico strumento obbligatorio e non modulabile rischia di essere un letto di Procuste, cioè una violenza fatta alle famiglie e alle persone.