Quando si pensa ai santi, vengono in mente figure un po’ indistinte e molto lontane, da un punto di vista temporale e spaziale; vengono in mente uomini e donne vissuti in tempi remoti, vestiti per lo più in abiti monacali e raffigurati in atteggiamento mistico su quadri polverosi. Figure distanti, nel corpo e nell’anima, di certo non calabili nella nostra concitata realtà, se non come destinatari di una preghiera fugace.
Poi un bel giorno si legge sul giornale che è stata aperta la causa di beatificazione di Chiara Corbella Petrillo. Non una mistica dei secoli scorsi, ma una ragazza nata nel 1984, che di mistico non ha niente né nell’aspetto, né nei modi, né nel parlare.
Una tale vicenda non può che incuriosire, perché essa porta a chiedersi se la santità non sia possibile anche oggi, in un mondo bombardato di materialismo e di fede assoluta nella sola ragione.
Chiara Corbella a 18 anni conosce Enrico Petrillo, colui che diventerà il suo futuro marito. I due giovani si innamorano e si fidanzano. La loro storia non è semplice, anzi è costellata da aspri litigi e rotture. Una vita normale, quella di Chiara; una giovinezza caratterizzata dalle vicende proprie dell’esistenza di ogni ragazza. I due si sposano nel 2008.
Chiara rimane subito incinta; la gioia però dura pochissimo, perché presto i due giovani genitori scoprono che la bambina che la donna porta in grembo soffre di una grave malformazione congenita. “Chiara, abortisci”, dicono medici, familiari, amici; “è inutile portare avanti una gravidanza che non ha alcuna speranza di successo”.
Chiara però va avanti, e lascia che a decidere quando è tempo di vivere e morire sia Dio. Così dà alla luce Maria Grazia Letizia, che muore poche ore dopo.
Maria-Grazia-Letizia: un’ascensione in ordine inverso di lode a Dio: letizia (“Ma quale letizia”, direbbe il mondo, “tua figlia è morta!”); grazia (“Grazia? Il tuo Dio ti toglie tua figlia praticamente ancor prima che inizi a vivere e tu parli di grazia?”) e Maria, in onore alla Madre di quel Dio che le che è artefice della vita e, nel suo caso, della morte.
Dopo pochi mesi, Chiara rimane nuovamente incinta. E anche questa volta, il bambino che porta in grembo è affetto da una gravissima malformazione. La storia si ripete: tutti consigliano a Chiara di abortire, di risparmiarsi questo dolore. Ma come la prima volta, Chiara lascia fare a Dio e dona la vita a questo bimbo, che chiamerà Davide Giovanni, il quale muore dopo poche ore.
Non passa molto tempo e Chiara è incinta di nuovo; tutto sembra andare per il meglio. Il bambino è sano. Ma questa volta la malattia colpisce la stessa Chiara, che scopre di essere affetta da un carcinoma alla lingua.
“Chiara, devi curarti; e per curarti devi abortire. Devi sacrificare la vita di Francesco” — il nome scelto per il piccolo — “per salvare la tua”. Per la terza volta, Chiara fa di testa sua, e rimanda le cure a dopo la nascita del figlio.
Francesco nasce, sano e forte. Purtroppo però la malattia è a uno stadio troppo avanzato, e a Chiara viene data una speranza di vita di poche settimane.
È una storia dis-umana. Nel senso che va oltre le capacità dell’uomo. Di sopportare, di soffrire, di capire.
E in tutta questa vicenda, Chiara ride. Le foto di Chiara, scattate poche settimane prima della sua morte, la ritraggono con una luce negli occhi, che a vederla si penserebbe che quella ragazza avesse sperimentato tutte le gioie di questo mondo.
“Ma come, Chiara, ridi? Ma non vedi cosa ti ha fatto quello che chiami il tuo Signore? Ti ha sottoposta al dolore più grande che una creatura vivente possa sopportare, la perdita dei figli. E ti ha posto sulle spalle il giogo di un’orrenda malattia, proprio quando ti aveva illusa di darti, finalmente, quel figlio tanto desiderato”.
Nonostante tutto, Chiara ride. E il suo sorriso non è il risultato di un ragionamento dettato dall’umana necessità di essere sani a tutti i costi, ricchi a tutti i costi, spensierati a tutti i costi. Essa nasce da uno sguardo proiettato costantemente verso il Cielo, generato da una fiducia totale nel fatto che esiste un piano per noi che sembra andare oltre gli affanni del quotidiano, per proiettarsi in una prospettiva di eterna felicità.