“Le Autostrade sono dello Stato, che le può dare in concessione e con il mercato non c’entrano nulla. Se devo andare da Milano a Bologna tra quante autostrade posso scegliere? Una. E allora il mercato non c’è. Chi le gestisce dovrebbe investire i profitti per migliorarle. Punto e basta. Altro che dividendi”: lo scriveva Beppe Grillo nel suo blog il 12 agosto del 2006, suona sinistramente attuale oggi, quando i riflettori dell’inchiesta giudiziaria, ma molto prima di essa e delle sue risultanze che impiegheranno, per arrivare, tempi biblici, gli interrogativi dell’opinione pubblica si concentrano su Autostrade per l’Italia e sulla buona, o meno buona, gestione della manutenzione che è stata fatta del Ponte Morandi a Genova.
La domanda terra-terra, che stronca i distinguo e i cavilli sulla bocca di chiunque – dagli economisti liberisti ai consulenti aziendali – e che non è una domanda di sinistra, né di destra, ma solo di buonsenso, è semplice: cosa dà e cos’ha dato la gestione privata delle autostrade al Paese, a fronte dei ricchissimi dividendi e delle sontuose plusvalenza incassate dagli azionisti, più di quanto avrebbe dato una gestione statale diretta? Ancor più semplicemente: siamo sicuri che i privati sappiano gestire le autostrade meglio di quanto ha fatto e farebbe lo Stato, e di quanto fanno gli Stati stranieri che ancora gestiscono direttamente la rete?
Sono questi gli interrogativi che spiegano le ultime dichiarazioni del ministro dello Sviluppo economico e del Lavoro Luigi Di Maio: “Autostrade per l’Italia deve pagare tutto, le concessioni vanno tolte e Benetton risarcisca. Per la prima volta c’è un governo che non ha preso soldi da Benetton, e siamo qui a dirvi che revochiamo i contratti e ci saranno multe per 150 milioni di euro. Autostrade per l’Italia è stata coperta politicamente da governi precedenti. Noi non faremo da palo a chi non fa la manutenzione dei ponti. Autostrade ha poi la sede finanziaria in Lussemburgo, quindi manco pagano le tasse. Se il ponte era pericolante dovevano dire che andava chiuso”. Ma anche l’altro vicepremier, Matteo Salvini, è andato giù pesante: “La revoca delle concessioni è il minimo che ci si possa aspettare”.
Ora, a parte i soliti toni feroci – che significa “preso soldi” da Benetton? Diranno da sinistra: “Se Di Maio sa qualcosa, vada alla Procura della Repubblica e sporga denuncia, se no taccia!”, dimenticando il celebre lamento di Pasolini, che certo di destra non era: “Lo so, ma non ho le prove!” – a parte i toni feroci, si diceva, è pacifico che la responsabilità oggettiva della manutenzione sia del concessionario. Si vedrà poi, frugando nelle pieghe di regolamenti concessori che possiamo già a priori definire incomprensibili e inservibili, se si troveranno tracce evidenti di una possibile correità degli uffici del ministero dei Trasporti cui spetta la vigilanza sull’operato dei concessionari autostradali, ma è chiaro che la “prima colpa” è del concessionario. Il quale invece, ovviamente, la scarica sulla famosa “fatalità”. Difesa d’ufficio comprensibile ma debolissima nel caso di una struttura della cui precaria affidabilità parlavano tutti, a Genova, da 25 anni.
Ma riemerge con prepotenza, in questa vicenda, l’origine remota del disastro, cioè il parto infelice delle privatizzazioni – tutte! – fatte dall’Italia negli anni Novanta, e in particolare la genesi deplorevole di quella di Autostrade. La più massiccia campagna di privatizzazioni fatta in Europa venne dettata dalla Commissione europea al Governo italiano dopo la crisi del ‘92 e il fallimento dell’Efim, e in particolare dall’allora commissario alla Concorrenza Karel Van Miert che nel luglio del ‘93 “trascinò” l’allora ministro del Tesoro (peraltro ideologicamente propenso a privatizzare) Beniamino Andreatta ad assumersi l’obbligo di stabilizzare i debiti di Iri, Eni ed Enel in cambio dell’autorizzazione al salvataggio dell’ex Efim. L’Iri sarebbe poi stato messo in liquidazione nel giugno del 2000, ma quell’accordo diede il via all’ondata delle privatizzazioni.
Il successivo “decreto Amato” trasformò in Spa Iri, Eni, Enel e Ina. Fu istituito il “Comitato Permanente di Consulenza Globale e Garanzia per le Privatizzazioni”, presieduto dal tecnocrate Mario Draghi, allora direttore generale del Tesoro, e fu l’ufficio che coordinò le privatizzazioni. Dopo una serie di grandi colpi, alcuni dei quali dolorosamente sbagliati come quello di Telecom Italia, nel novembre del 1999 (Governo D’Alema, il primo guidato da un segretario dell’ex Pci), l’Iri cedette l’87% di Autostrade.
Scriveva Massimo Mucchetti sul Corriere della Sera, in ottima sintesi, nel 2005: la maggior parte del capitale di Autostrade “venne venduto in Borsa e il 30%, per 2,5 miliardi di euro, alla società Schemaventotto. Il 60% della Schemaventotto appartiene a Edizione Participations, filiale lussemburghese di Edizione Holding, la capogruppo dei Benetton. Schemaventotto ha finanziato l’investimento per 1,3 miliardi con capitale di rischio e per il resto a debito. Edizione Participations, a sua volta, ha coperto la sua quota del capitale Schemaventotto (800 milioni) con mezzi propri per 182 milioni e per il resto con prestiti ottenuti da altre società del gruppo dove, spiegano a Treviso, si era concentrata la liquidità proveniente dalla vendita dei supermercati Gs. Sulla ruota di Autostrade, pertanto, i Benetton hanno puntato 800 milioni: tutto il resto lo hanno messo i soci di minoranza di Schemaventotto e le banche. Con l’offerta pubblica d’acquisto del 2003 Schemaventotto ha acquisito un’amplissima maggioranza di Autostrade, ma senza metterci un euro suo. L’Opa, infatti, è stata finanziata dalle banche. La società veicolo dell’Opa con tutto il suo debito si è poi fusa con Autostrade. La partecipazione di Schemaventotto si è diluita in proporzione, ma il costo dell’Opa è finito sulle spalle della ricca controllata. Schemaventotto ha poi venduto un po’ di azioni Autostrade, scendendo al 50,1%, e ha così azzerato la sua esposizione. Adesso, Schemaventotto possiede un valore di circa 5,8 miliardi in titoli Autostrade, che per il 60% è di pertinenza di Edizione Participations alla quale resta un guadagno teorico sull’investimento di oltre 2 miliardi al lordo degli imposte ma senza contare il premio di maggioranza”. E senza contare i dividendi incassati, pari in media a circa il 5% netto all’anno sulla capitalizzazione.
Rifare oggi i conti in tasca ai Benetton per i guadagni, in dividenti e valore, intascati negli anni dal 2005 in poi è difficile, anche perché è intervenuta la fusione in Atlantia di Autostrade, Aeroporti di Roma, Telepass, Pavimental, ecc., ma si può dire che dei 20 miliardi dell’attuale valore borsistico di Atlantia, una buona metà derivi da Autostrade, e che quindi quel moltiplicatore di 3,5 possa salire tranquillamente a 7.
Una cuccagna, una bonanza senza eguali. Di fronte alla quale quel miliardo annuo di investimenti in manutenzione rivendicato da Autostrade – peraltro interamente spesato dal conto economico della società, cioè dai pedaggi che paghiamo noi, senza minimamente pregiudicare un utile 2017 di 968 milioni rispetto a un fatturato di 3663 – impallidisce.
È di fronte a queste cifre – e al disastro di Genova – che la domanda sul senso “sussidiario” che un certo tipo di privatizzazioni ha avuto – o non avuto! – in Italia, s’impone. Ad altre sedi il dibattito nobile e accademico sul valore delle privatizzazioni e le formule vincenti dell’economia mista. Oggi da una parte ci sono quaranta morti e una regione paralizzata, dall’altra casse piene di soldi e la fredda contabilità, certo formalmente regolare, di una manutenzione che però, per una ragione o per l’altra, non ha saputo impedire il disastro.