Il ministro dell’Istruzione Bussetti in una serie di recenti dichiarazioni a proposito di assunzione di nuovi docenti nella scuola italiana ha scelto la strada della semplificazione. Al posto di Tfa e Fit vorrebbe ripristinare i concorsi dopo la laurea, probabilmente su base regionale, su numeri di posti effettivi. Il ritorno al concorso sarebbe, a suo dire, la strada maestra per entrare nella scuola ad insegnare stabilmente a poca distanza da una laurea compatibile con l’insegnamento. Un’intenzione che sembrerebbe encomiabile, tenuto conto che i docenti italiani hanno in media 50 anni e che si entra nella scuola con posto fisso dopo anni, decenni di precariato. La novità non ha in realtà nulla di nuovo rispetto alla cultura scolastica del governo precedente, tranne la promessa di abolire, semplificare appunto, alcuni vincoli attualmente esistenti.
L’attuale giungla del reclutamento si basa sul Decreto legislativo 59/2117 che, figlio della Buona Scuola di Renzi, non a caso si propone di “semplificare il sistema di formazione iniziale e di accesso nei ruoli dei docenti” e prevede un concorso nazionale su base regionale, seguito da un percorso triennale di formazione iniziale e tirocinio (Fit) che si conclude con una valutazione per l’accesso al ruolo.
Prima della Buona Scuola, per insegnare era necessario acquisire innanzitutto l’abilitazione all’insegnamento e superare poi un concorso. Tuttavia dal 2007, anno in cui furono abolite le Ssis (Scuole di specializzazione all’insegnamento secondario), le opportunità per conseguire l’abilitazione sono state solo tre, i Tirocini formativi attivi (Tfa) nel 2012 e 2014 e i Percorsi abilitanti speciali (Pas) nel 2013. Il Miur aveva annunciato che i Tfa sarebbero stati istituiti ogni anno, ma dopo il 2014 furono interrotti. I concorsi d’altro canto sono stati solo due, nel 2012 e nel 2016. Il decreto 59/2017 precisa che il concorso dovrebbe sussistere di tre prove, due scritte e una orale, e obbliga chi intende accedervi ad avere, oltre alla laurea magistrale o titolo analogo, un pacchetto di 24 crediti formativi universitari o accademici nelle “discipline antropo-psico-pedagogiche e nelle metodologie e tecnologie didattiche”.
La giungla prevede anche che chi è già in possesso dell’abilitazione all’insegnamento possa accedere a un concorso riservato. Sia nel caso di docenti Fit che in quello di docenti già abilitati tramite Tfa, dunque, il concorso non è una novità, salvo l’eliminazione, nelle allusioni del ministro, ai famosi 24 crediti formativi propedeutici al Fit. D’altra parte anche oggi i 24 crediti non servono per chi ha già alle spalle tre anni di insegnamento e può accedere ad un concorso riservato. Altri concorsi dovrebbero essere attuati per sanare situazioni pregresse nella scuola primaria. Al netto delle posizioni, cioè del fatto che tutte le pratiche concorsuali, fatta eccezione (forse!) per scuola primaria e infanzia, sono oggi bloccate dal Miur (“problematiche inerenti la gestione delle domande del concorso riservato e pubblico a livello informatico”: sic!) la cultura scolastica che ispira queste logiche di reclutamento consiste nel superamento del concetto di abilitazione come titolo necessario per accedere ai concorsi.
Da questo punto di vista, non c’è sostanziale differenza tra il decreto 59/2017 e le recenti intenzioni del ministro Bussetti: se non, come detto, nella soppressione dei 24 crediti. Questa “filosofia” è contestata da siti qualificati o da tecnici della passata amministrazione. Tuttoscuola osserva come l’abilitazione sia richiesta per professioni particolarmente specializzate, ad esempio quelle di “medici, dei farmacisti, dei notai, degli ingegneri, degli architetti, dei geometri, degli psicologi, etc.”. Da sempre è stata richiesta anche per chi intende insegnare. Da ora in avanti non più? Marco Campione su queste pagine si chiede: come sarà possibile iniziare ad insegnare, senza alcuna preparazione specifica?
Ora, abilitazione e preparazione non sono la stessa cosa. La necessità di avere l’abilitazione, e i vari sistemi che ne hanno gestito l’organizzazione, ha visto spesso i neolaureati soccombere di fronte a percorsi di specializzazione concepiti dalle università e dai loro dipartimenti didattici. La preparazione, nel senso dello sviluppo delle attitudini a relazionarsi con la classe, è invece compito precipuo della scuola nella quale il giovane docente si trova a muovere i primi passi. In concreto, una volta ottemperate le attività concorsuali previste dal Fit (nella riunione Miur-sindacati del 13 settembre scorso l’Amministrazione ha comunicato l’intenzione di predisporre un decreto che obblighi le commissioni a terminare i lavori entro il 31 dicembre 2018), ci si dovrà interrogare seriamente sulla formazione del docente immesso nella scuola per concorso. Il problema sta non tanto nel superamento o meno del Fit, ma nella concezione stessa della professione docente.
Una qualche forma di tirocinio infatti è utile, addirittura imprescindibile, a due sostanziali condizioni: anzitutto il giovane docente deve essere libero di seguire altri docenti esperti (in discipline e umanità) con assoluta libertà e senza appesantimenti burocratici. Si impara ad insegnare seguendo chi lo sa fare, non riempiendosi la testa di acquisizioni didattiche. In secondo luogo, il giovane docente, assunto e quindi stipendiato, dovrà avere un certo tempo a disposizione (tre anni?) per decidere se intende o meno continuare a svolgere la professione intrapresa. Qui si gioca la partita: è una questione di libertà e di autovalutazione prima ancora che di valutazione esterna che potrà non mancare, ma che sarà sempre approssimativa rispetto alla decisione soggettiva. Prima che un ruolo, l’insegnante è infatti una persona a contatto con un mondo incredibile di volti e di persone.