Questo articolo, di fatto, è la naturale prosecuzione di quello pubblicato ieri. Se infatti ieri ho cercato di dimostrare come la presunta guerra commerciale fra Usa e Cina a colpi di dazi e tariffe altro non sia che un’enorme farsa che ha come prima – e, finora, pressoché unica – vittima l’economia dell’Unione europea, colpita dal combinato sull’export creato anche dalla crisi valutaria/debitoria dei mercati emergenti, oggi vediamo brevemente di capire quali potranno essere, stante gli elementi di cui disponiamo a oggi, gli sviluppi e le finalità a medio termine. Sempre ricordando che, sul lungo termine, la logica resta quella tratteggiata sei anni fa da Edward Luttwak nel suo Il risveglio del Drago – La minaccia di una Cina senza strategia: ovvero, il redde rationem finale fra Washington e Pechino su chi governerà e detterà le regole globali. In primis, a livello di benchmark valutario per gli scambi internazionali, petrodollari o petroyuan, ad esempio.
Qual è la necessità principale delle due superpotenze economiche: evitare come la morte la fine del regime di Qe mondiale, ma, al tempo stesso, c’è la necessità di sgonfiare la bolla debitoria. Nel caso americano rappresentata da Wall Street, in quello cinese dal sistema bancario ombra e dall’eccesso di credito terminato a badilate nel settore real estate. Come fare? Formalmente, sia la Fed che la Pboc stanno operando in tal senso, la prima attraverso il cosiddetto tapering degli acquisti obbligazionari compiuti durante gli anni del Quantitative easing e la seconda chiudendo il rubinetto delle iniezioni di liquidità a pioggia e limitandosi a interventi monetari mirati, al fine di lasciar sgonfiare – anche a costo di dover tamponare dei default locali su obbligazioni – la bolla creditizia senza far morire di sete il sistema. Ma sono pannicelli caldi, minestrine da ospedale e poco più.
Occorre ricorrere, come dico spesso, al grande reset, alla distruzione creativa di Schumpeter: ma per farlo, serve un casus belli e la certezza che nulla vada troppo fuori controllo. Perché signori, per quanto sia stato devastante, il 2008 è stato comunque gestito, altrimenti staremmo veramente ammazzandoci per un tozzo di pane, altro che lavori della gig economy sottopagati. Inoltre, serve che l’epicentro del botto sia lontano, distante dalle criticità enormi che i due giganti hanno in seno ai loro sistemi fiscali e finanziari: così come Lehman Brothers fu fatta fallire per “globalizzare” la crisi e sull’onda dell’emergenza salvare le strategiche Aig, Fannie Mae e Freddie Mac, il vero motore subprime che avrebbe colpito al 90% solo l’America, così oggi occorre che qualcuno venga sacrificato per giustificare misure emergenziali che, sia per gli Usa che per la Cina, ribalterebbero completamente le narrative della politica. Quindi, poco digeribili per l’opinione pubblica, soprattutto americana. E non solo perché protestare in Cina è poco salutare ontologicamente ma anche – e soprattutto – perché il 6 novembre si vota per le elezioni di mid-term. E cosa c’è di meglio che ri-utilizzare uno schema già rodato e che ha funzionato bene?
Ed ecco che, con epicentro diverso, scoppia la crisi dei Paesi emergenti come nel 1998 e nel 2013, questa volta però non in Asia ma soprattutto in Turchia e America Latina. E quale sarà il primo contagiato, in caso si arrivi a un’escalation? Quello che nel 1998 fu il Giappone, oggi potrebbe essere l’eurozona, la quale “sconta” l’eccessivo peso dell’export percentualmente al suo Pil. È tutta questione di percentuali ed equilibri, d’altronde. E la “guerra commerciale” fra Usa e Cina appare come la ciliegina avvelenata sulla torta della nuova crisi, come ci mostra un indicatore proxy poco ortodosso, ma a mio avviso molto credibile: il trasporto via mare.
Quando Donald Trump sparò il primo colpo della sua guerra contro Pechino, il mercato internazionale delle tariffe per il trasporto navale conobbe un picco al rialzo fra aprile e luglio, ovvia conseguenza della legge di domanda e offerta legata a un aumento delle necessità di consegna di merci che si volevano comprare a prezzo ancora concorrenziale e senza regime dei dazi ancora in vigore (dinamica che spiega anche il dato da record del Pil statunitense del secondo trimestre, un ,+4% su cui solo l’export di soia ha pesato per l’1,06%). Ora, però, con la prima tranche di dazi già in vigore e la seconda annunciata non più tardi di lunedì scorso, ecco che il mercato dello shipping comincia a patire quello che sarà un rallentamento generalizzato da qui in poi, come ci mostra il grafico: nessuno anticipa più acquisti e spedizioni, ciò che andava fatto è stato compiuto prima e ora si teme non certo il blocco, ma sicuramente un netto calo dei volumi e della domanda. Quindi, l’offerta aumenta e si abbassano le tariffe.
Lo conferma Peter Sand, capo analista per lo shipping alla Bimco, a detta del quale «l’85,3% degli import cinesi via mare dagli Usa e il 58,5% degli import statunitensi dalla Cina potrebbero essere potenzialmente colpiti dalla disputa commerciale in atto, questo se veramente Washington e Pechino confermeranno l’implementazione dei dazi e la nuova tranche di tariffe penalizzanti sull’import, per un controvalore di 200 miliardi riguardo le merci cinesi verso gli Usa e per 60 miliardi viceversa». Detto fatto, già oggi i dati di Bloomberg confermano che la domanda per il trasporto di acciaio e carbone su vascelli Capesize da 1000 piedi è crollata del 39% rispetto al picco di inizio agosto. Un dato allarmante, in prospettiva, per il semplice fatto che acciaio e carbone sono i proxy del livello di attività dell’industria delle costruzioni cinesi.
Insomma, non solo abbiamo una visione da insider dei potenziali punti di svolta dell’economia globale e dei trend del commercio ma anche del grado di febbre che sta attraversando Pechino con la sua economia. E, quindi, del livello più o meno alto di possibilità che la Cina, a breve, riattivi il suo impulso creditizio globale, di fatto l’unico in grado di operare un offsetting funzionale rispetto all’inazione della Fed (la quale, giova ricordarlo, è comunque un’inazione solo formale, perché stante i dati macro – reali o gonfiati poco importa, restano comunque il riferimento ufficiale – i tassi di interesse sono ancora incredibilmente bassi negli Usa).
Con il tasso per il capesize quotidiano sceso del 3,9% a 16.559 dollari, stando alle ultime rilevazioni della Baltic Exchange, il quadro appare chiaro: soltanto il 6 di agosto scorso, quel costo per il noleggio era di 27.283 dollari al giorno, sceso poi a 26.000 dollari il 21 agosto, stando a dati della Clarkson Securities. Non a caso, il Baltic Dry Index, il canarino nella miniera dello stato di salute del commercio mondiale, oggi è sceso a 1.411 punti, il minimo da fine giugno scorso.
(1- continua)