Il portavoce del premier Giuseppe Conte ne inventa una al mese per ottenere le prime pagine dei giornali. Ad agosto quella degli sms inviati a giornalisti amici, che mettevano in evidenza i fischi contro gli esponenti del Pd, scritti nel bel mezzo dei funerali delle vittime del ponte Morandi a Genova. Ora le minacce di purghe ai dirigenti del ministero dell’Economia, che, rei di non essere in grado di trovare i fondi per finanziare il reddito di cittadinanza, “o obbediscono o li cacciamo”.
Il povero Rocco Casalino ora si scusa, ma intanto tutti parlano di lui e il messaggio è stato inviato ai destinatari. Il portavoce ha sicuramente sbagliato, ma quelle parole non le poteva dire Di Maio o il suo capo, così il giornalista si è preso la briga di mettere sull’avviso i funzionari del Mef. Tuttavia, al di fuori di ogni ipocrisia, oltre alle infinite e stucchevoli dichiarazioni di sdegno subito comparse su tutti i media, il “caso Casalino” ha svelato l’acqua calda. È noto infatti come nei ministeri più che i politici contino i funzionari, quegli alti dirigenti che negli ultimi anni di servizio, se hanno buoni agganci e se hanno una laurea in giurisprudenza o economia, passano spesso alla magistratura contabile, con lauti stipendi, carriera sino a settant’anni e pensioni d’oro. Gente che conosce bene le maglie dell’amministrazione statale e che utilizza le proprie competenze per fare da contraltare ai ministri e sottosegretari di turno, per cui la politica spesso perde la propria funzione di guida e non riesce a imporsi di fronte ad apparati di potere consolidati nel tempo e politicamente autoreferenziali.
Alcuni li chiamerebbero, certo sbrigativamente, una “casta”; direttori generali, di dipartimento, dirigenti tecnici, con il compito di mettere i paletti, a suon di atti amministrativi, entro i quali i politici prendono le decisioni. Personale politico preparatissimo, defilato, avvezzo ai corridoi e per nulla alle tribune, la realtà e che i “tecnici” speso e volentieri sono tutti uguali, dal Mef al Mibac, sino al Miur.
Il ministero di viale Trastevere è la dimostrazione lampante di tale logica. Giova ricordare come la “Buona Scuola” di Renzi sia stata azzoppata all’interno del ministero guidato dalla Giannini, una linguista dell’Università di Perugia che poco o nulla sapeva dell’apparato burocratico che doveva gestire. Anche il ministro Moratti subì la stessa sorte e chi non si ricorda del plenipotenziario Domenico Fazio, che tra gli anni 80 e l’inizio del duemila metteva in riga politici di tutte le razze e stagioni?
Il ministro dell’Istruzione Marco Bussetti è dunque avvisato, lui che dovrebbe conoscere molto bene l’organizzazione amministrativa del Miur, avendo ricoperto sino a pochi mesi fa un incarico dirigenziale periferico del ministero di cui ora è al vertice. Bussetti deve sapere (o forse sa molto bene) che al Miur conterà pochissimo e che quel dicastero è pieno zeppo di funzionari che vogliono una scuola onnicomprensiva, poco propensa all’efficienza, sempre prona all’accordo politico-sindacale, fortemente centralizzata, ma allo stesso tempo scarsamente interessata alle sfide educative, ideali e formative a cui i giovani italiani chiamano ogni giorno i loro docenti.
Per capire come si perpetua questa classe dirigente basta andare sui siti ministeriali e leggersi i curricula dei vari direttori. Una lettura interessante per farsi un’idea di come si formino le competenze di che governa davvero la scuola. Fino a quando?