La situazione europea si fa confusa e irta di contrasti. Nulla è come appare. Lo scontro tra eurofili ed eurofobi si fa confuso. Non c’è una divisione netta tra le subculture politiche europee. Ossia Tra Macron da un lato e Orbán e Salvini dall’altro, come recita la narrazione mainstream. La Merkel, Juha Sipilä (primo ministro liberale finlandese), Mark Rutte (primo ministro liberale dei Paesi Bassi), Lars Lokke Rasmussen (primo ministro liberale danese), hanno preso le distanze da questa polarizzazione, a fronte dei dichiarati e variegati alleati di Macron: Stefan Löfven, primo ministro socialdemocratico svedese), Charles Michel (primo ministro liberale belga), Donald Tusk, conservatore presidente del Consiglio europeo nominato contro il parere del governo polacco, Pedro Sanchez, primo ministro socialista spagnolo, Alexis Tsipras, primo ministro greco della sinistra radicale, tutti raccolti attorno al fenomenale Jean-Claude Juncker! Con Orbán stanno coloro che dovrebbero segnare il punto della vittoria elettorale: Jimmie Åkesson dell’estrema destra svedese, Geert Wilders olandese soprattutto Jaroslaw Kaczynski dell’ultraconservatore Pis polacco; spiccano naturalmente Marine le Pen e Alice Weidel presidente dell’Afd al Bundestag, in compagnia di Heinz-Christian Strache presidente dell’austriaco Fpo.
Matteo Salvini è al centro di questa galassia da cui prendono le distanze Andrea Babis presidente del governo ceco, Horst Seehofer leader della Csu e ministro degli interni tedesco, nonché Sebastian Kurz cancelliere austriaco conservatore. E molti osservatori collocano Luigi Di Maio in questa pattuglietta!
Una gran confusione, dunque, e un clima di incertezza profonda. L’Italia, come sempre, spicca per la sua eccentricità politologica: se Berlusconi faciliterà l’entrata di Salvini nel Ppe per stare con Forza Italia che è la paladina degli eurofili italici unitamente al Pd, ebbene il quadro si complica ancor di più e allora la macchina dei partiti per la prima volta nella storia europea del secondo dopoguerra assume una fisionomia a geometria variabile, la cui forza interiore di movimento non diventa più la subcultura politica storica, ma — per tutte le forze parlamentari europee — il decisionismo delle élites che preformano le volizioni elettorali con una potenza mai vista prima.
Questa è la vera forza della politica oggi in Europa: la sua stessa distruzione come politeia e la sua emersione come capacità manipolativa grazie alle strategie di controllo dei comportamenti che le ondate migratorie da un lato e la crisi da deflazione che ha sconvolto e sconvolge l’Europa hanno provocato.
In questo scenario la sorte del governo italiano non si decide in Italia, ma nella sfera di esercizio del potere che ha al suo centro il comportamento degli Usa. Il comportamento di questi ultimi è oggi decisivo: comprendono o no che un’Europa esplosa come la scena finale del film di Antonioni, “Zabriskie Point”, è un pericolo mortale per tutto l’occidente poiché apre la via al dominio militare e demografico cinese, che si fa sempre più ossessivo e imperioso, dall’Africa all’Artico (ancora per qualche anno, prima che l’invecchiamento del figlio unico non la distrugga)?
In questo quadro il governo italiano deve la sua tenuta solo alla proposizione ferma di una linea di autonomia dallo strapotere teutonico e dall’aggressività francese. Per questo schierarsi pro Orbán o pro Macron non è né influente né decisivo: influente e decisiva sarà l’alleanza geopolitica ed economica con gli Usa, quale sia il suo presidente. Occorre ricercare una coesione di programma e di lungo periodo puntando sulla crescita piuttosto che sull’icona del debito: gli spazi per agire esistono, ma è necessario tornare alla politica, ossia alla politeia con una visione del destino dell’Italia, oltre le diatribe europee destinate a turbolenze e mutazioni e fibrillazioni incontrollate e impreviste.