Frank e Uwa. Ieri ilsussidiario.net ha pubblicato le loro storie di migranti, che si sono “lasciati tutto alle spalle”. Tutto: affetti, punti di riferimento, risorse di qualsiasi genere. Tutto, ma non la loro umanità. E questa umanità è rifiorita perché hanno incontrato chi ha voluto loro bene. Voler bene: da dove viene questa energia affettiva? Perché ascoltando questa loro vicenda ci sentiamo partecipi? Perché quel desiderio del cuore non è un ricciolo sulla struttura economica dell’esistenza personale e sociale, ma è l’essenza del nostro nome e della nostra identità.
C’è qualcuno che non vorrebbe far parte di quell’intreccio di persone che a Termini Imerese hanno creato questo luogo di ospitalità, nucleo di quella che Giovanni Paolo II chiamerebbe – come fece al Meeting di Rimini del 1982 – “civiltà della verità e dell’amore”? Tutti vorremmo questo, se conserviamo un minimo di desiderio umano. Non vale solo per chi si riconosce cristiano e vuole esserlo, ma chiunque abbia sperimentato lo sguardo di una madre, o di una donna (o di un uomo) disposto a dare la propria vita perché “tu non muoia mai”, campa e tira innanzi nell’attesa che trovi pienezza quella nostalgia originaria.
Non sono soltanto le loro storie a saltar su e colpire. Ma anche quelle – non dette, ma presenti – di chi le ha raccolte, di quei nostri connazionali che sono stati capaci di voler bene a questi due ragazzi, degli studenti universitari che le hanno proposte con una semplicità estrema, e senza ideologizzare. Come tanti, mi interrogo continuamente sul fenomeno migratorio che viene misurato in numeri, e viene sociologicamente individuato da destra e da sinistra – retorica a parte – come fonte non solo di disagio, ma come possibile causa di una deflagrazione della vita comune, specie delle periferie. Ehi esistono le persone, “quel singolo” come fece scrivere di sé sulla tomba Kierkegaard. Ma come tenere insieme queste due dimensioni?
Sono giornalista, e dedico articoli al tema. Non voglio qui discettare troppo in pubblico sui miei rovelli, anche se so bene che i miei tornenti sono un lusso, rispetto a chi non ha niente. Sintetizzo brutalmente, semplificando orrendamente il corso rapsodico delle mie riflessioni. Esiste il dovere di accogliere lo straniero, vestirlo, sfamarlo. È una sapienza antica, una lezione biblica. Guai a non trarre dalle acque e scaldare e dare affetto a chi annega. E poi sostenerlo qui nel cercare lavoro, nel servire alle mense della Caritas. C’è stato un incontro con un ragazzo senegalese, e la mia famiglia con pura gioia ha sostenuto lui e la sua famiglia, con sacrifici di cui siamo felici. È una convenienza umana. Serigne è musulmano sufita. La madre prega per noi, e così la sua giovane moglie dal Senegal. Gli vogliamo, anzi ci vogliamo bene.
Mi rendo conto che tanti che arrivano qui, e per cui lo Stato spende 30 euro al giorno, sono paradossalmente i più forti, coraggiosi, disposti a subire angherie pur di star meglio. Le ragazze sono violentate. Le nigeriane sono legate sin dall’inizio a contratti siglati con il rito mafioso del voodoo, e obbligate a prostituirsi. Salvare e accogliere significa vedere poi questi bei giovanotti dividersi il posto di mendicante fuori da ogni negozio, panetteria, rubando il posto ai rom. Questa è stata l’accoglienza. Come quando si tira fuori per i capelli uno dalla piscina, e poi lo si lascia sul bordo, scaricati addosso a un contesto umano già difficile di suo. Trasferiti non come persone, ma come molecole di un’entità straniera, percepita da chi non ha niente, e sono tanti, come chi spazzolerà per sé le briciole una volta spettanti a loro. Mia moglie serve a una mensa Caritas. I senza-nulla italiani si lamentano eccome della discriminazione a loro svantaggio quando vedono africani accolti in alberghi…
Cosa deve fare la politica? Un miliardo di africani, venti guerre in corso, profughi climatici a decine di milioni. Chi arriva qui è frutto di una selezione della specie. È salito sulle spalle dei più poveri di loro, dei meno forti, per tendere le proprie mani fino a noi. Prosciugano per questo i risparmi delle loro famiglie medio borghesi. Vuol dire che per questo bisogna trattenere un moto di solidarietà? No di certo. Guai. Il prossimo non ce lo scegliamo noi.
La politica deve tener conto però di tutti i fattori. Deve tutelare il benessere del proprio popolo: anche quello spirituale, mai rinunciando a una visione del mondo. Dunque – e l’ho scritto a Salvini su un giornale filosalviniano – mai compiacersi della propria durezza, guai. Sapere che in nessun caso è una pacchia migrare, in queste condizioni infami poi. Ma oggi non possiamo più accontentarci di una politica che abbia in mente solo “l’ultimo miglio”. In quel momento il peggio è già accaduto. Occorre evitare questo ultimo miglio che ci viene imposto dalle organizzazioni dei negrieri. Si deve partire dal postulato e affermare, non per egoismo ma con magnanimità, che la migrazione è uno strappo doloroso, e il primo diritto – come detto da Benedetto XVI e ripetuto da Francesco – è quello di non dover migrare, ma poter lavorare e riposare dove ci sono le ombre dei propri padri. Vasto programma, direbbe De Gaulle. Ma se il mondo è un casino, trasformare il caos in cosmo, in ordine, è l’essenza della politica e della diplomazia.
Pertanto, io capisco la linea dell’attuale governo, che ha mutato paradigma nella politica migratoria. Tenendo conto di tutta la tragica filiera, e cerchi di sanare e governare questi flussi, perché ci sia nel mondo una certa uguaglianza. Non solo qui da noi. Ma tra noi e il resto del mondo. Non per un’utopia illusoria, ma punto per punto, mattone su mattone, sostenendo presenze di civiltà e di dialogo (mi viene in mente Avsi, che io ho visto all’opera magnificamente in Uganda).
La scelta delle politiche, che è difficile, e ha bisogno di anime grandi e capaci di amore e non di rancore, non può mai in nessun caso essere un alibi dietro cui nascondere il nostro dovere di essere personalmente coinvolti, ciascuno come può, in gesti di semplice bontà. Dico bontà, alludendo a quella dei bambini. Il mio figlio più piccolo piangeva, tanti anni fa, se passavamo davanti a un mendicante senza offrirgli una moneta. Il Papa ha suggerito che l’elemosina sia un toccare la mano, dire una parola, sentire la ferita del prossimo. Ospitare qualcuno nel proprio cuore, per un caffè, significa aver condiviso un caffè con un angelo.
Occorre un’educazione, non teorica, ma fatta di testimonianze e non di prediche. Così possiamo diventare consapevoli che chi arriva tra noi, ma anche chi tra noi lo rifiuta, e manifesta disprezzo o odio (anche se, posso dirlo?, esso si esprime più sui social che nella vita reale: sto a Milano, salgo sui tram, prendo il treno dei pendolari; non ho assistito a un solo, uno solo, episodio di discriminazione o tanto meno di razzismo); ciascuno di questa pullulante umanità è esattamente come Frank e Uwa. Ciascuno ha un cuore. Nessuno ha un destino di inutilità.
Sono grato ai due amici nigeriani e ai nostri amici universitari che mi educano, con la loro autorità di testimoni, a cambiare. A 63 anni, desiderare un cambiamento. Imparando da loro. Mica è poco.