La politica estera di Trump, all’apparenza in netto contrasto con quella dei suoi predecessori, nella sostanza sembra esserne piuttosto una conseguenza. Come già scritto in precedenza, è credibile l’ipotesi che Donald Trump abbia accettato la fine dell’indiscussa supremazia statunitense in un mondo divenuto ormai multipolare. Ne consegue la necessità di ridiscutere una serie di interventi in giro per il mondo che hanno comportato costi elevati ma risultati negativi: nel Pacifico, in Medio oriente, in Europa e nello stesso continente americano.
In politica estera, lo slogan “America first” significa la volontà di mantenere il ruolo di prima potenza mondiale, ma limitando i costi per il Paese, aumentando i ricavi. Un approccio “commerciale” che si riscontra, per esempio, nella richiesta agli alleati di maggior condivisione dei costi Nato, o nella guerra dei dazi, che sembra tesa a migliorare le condizioni per gli Usa nelle trattative commerciali, piuttosto che a instaurare un ordine mondiale protezionista. E’ quindi lecito pensare che, con modalità a volte incoerenti e contradditorie, Trump stia cercando di uscire dalla situazione provocata dalle strategie fallimentari dei suoi predecessori, in particolare da Obama, limitando al massimo i danni.
Ciò è particolarmente evidente in Medio oriente: ai non risolti problemi dell’Afghanistan e dell’Iraq si è aggiunta la sconfitta in Siria, dove è fallito il tentativo di abbattere il regime di Assad, dando un ruolo rilevante alla Russia di Putin, la cui influenza si sta estendo in altri scenari, come l’Egitto e il caos libico. Lo Yemen si sta trasformando in una sorta di Vietnam per gli alleati sauditi, lo storico alleato turco è ormai sempre più ai ferri corti e, malgrado le sanzioni, l’Iran sembra ancora all’attacco.
La sensazione è che Trump, di fronte a questo quadro negativo, cerchi di diminuire il coinvolgimento diretto degli Stati Uniti, anche se neppure The Donald può ritirarsi dicendo abbiamo sbagliato – lui direbbe comunque: “gli altri hanno sbagliato”. Ed ecco la messa in atto di una tortuosa azione “diplomatica” (virgolette dovute ai modi tutt’altro diplomatici del nostro), che consenta agli Usa di rimanere coprotagonisti, e non più primi attori, nella regione. Una strategia che abbisogna di accordi con le varie potenze regionali e, soprattutto, con la Russia.
Si prenda l’ultima “uscita” su Gerusalemme, con l’affermazione che gli israeliani dovranno pagare un caro prezzo nelle trattative con i palestinesi, come conseguenza del riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele. La frase è stata interpretata come una retromarcia, ma credo che debba essere interpretata diversamente: nel suo intervento, Trump afferma di aver voluto togliere dal tavolo delle trattative uno dei maggiori inciampi, appunto il ruolo di Gerusalemme. Il trasferimento dell’ambasciata a Gerusalemme è una decisione presa in passato dal Congresso, che i suoi predecessori non hanno attuato per non mettere a rischio le trattative tra israeliani e palestinesi, di cui Washington era parte attiva e determinante. E’ qui il vero messaggio di Trump, esplicitato ancor più in un intervento di John Bolton, consulente del presidente per la sicurezza nazionale, considerato un “falco”: d’ora in poi toccherà alle due parti in causa trovare un accordo e Israele dovrà tener conto del “regalo” fatto da Trump e “pagare” un corrispettivo ai palestinesi.
Dati i rapporti dell’attuale amministrazione con il governo israeliano, questa mossa appare come un primo segnale di disimpegno dalla regione e, paradossalmente, potrebbe essere letta nello stesso modo anche la denuncia del trattato sul nucleare con l’Iran. Di per sé, questo atto inasprisce il confronto fra Iran e Stati Uniti, ma vi si potrebbe leggere un segnale all’Arabia Saudita simile a quello inviato a Israele: ora tocca ai sauditi rispondere a questo gesto con iniziative dirette ad alleggerire la situazione nell’area.
Le finanze del Regno Saudita non sono più floride come in passato, la sua immagine internazionale è sempre più danneggiata dalla guerra in Yemen e dalle repressioni interne del “moderato” principe ereditario, gli Usa sono diventati concorrenti pericolosi nel settore petrolifero e, sarà un caso, la quotazione alla Borsa di New York dell’Aramco, l’ente petrolifero statale, è sempre più incerta. Inoltre, l’arma del ritiro degli investimenti sauditi negli Usa sembra meno efficace e rafforzerebbe la trumpiana “America First”.
Si potrebbe osservare, tuttavia, che Trump è un presidente azzoppato dalle ricorrenti minacce di impeachment e dal possibile esito negativo delle elezioni di midterm nel prossimo novembre. Ipotesi concrete ma non semplici, date le difficoltà in cui si dibattono entrambi i partiti, che renderebbero molto rischiosa ogni transizione. Secondo qualche commentatore, a Trump potrebbe essere concesso di terminare il suo mandato per poi poter essere processato dai tribunali ordinari. Ogni strategia di uscita da queste disastrose situazioni richiede tempo ed ecco perché, anche per i suoi oppositori, sarebbe meglio lasciar terminare il mandato a Trump, tenendolo sotto costante scacco. E attribuendogli tutto il peso del fallimento delle precedenti strategie, senza alcuna assunzione di responsabilità da parte dei reali artefici, pronti a riporsi alla guida degli Stati Uniti.