Di tutti gli ordini professionali italiani, quello dei giornalisti è fra i meno difendibili. Non sorprende che Vito Crimi, sottosegretario pentastellato alla Presidenza con delega all’editoria, abbia apertamente ventilato la sua abolizione. Lo ha fatto, è vero, preannunciando per i prossimi mesi una grande tavolo strategico sul futuro della media industry italiana. Ma non ha neppure atteso la convocazione per mettere già su quel tavolo un’ipotesi di scambio: aiuti straordinari per la ristrutturazione di un settore in profonda crisi come contropartita, fra l’altro, di un'”autoriforma” dell’Ordine dei giornalisti. Un’operazione di politica economica (ma non solo) tendenzialmente esemplare per tutti i due milioni abbondanti di italiani – dai medici alle guide alpine – la cui professione è tutelata da una trentina di Ordini e Albi. Una galassia di “corporazioni” che da decenni si attira fulmini e anatemi di tutti gli opinionisti liberisti e puntuali impegni politici a farne piazza pulita.
I giornalisti sono indubbiamente un ordine eccentrico rispetto a quelli più antichi e blasonati (medici, avvocati, notai, ingegneri, commercialisti, ecc.). Fino a qualche anno fa non era neppure necessaria la laurea per accedere all’esame di Stato (non esistevano neppure corsi universitari di giornalismo). E poi gli iscritti all’elenco principale (i veri e propri “professionisti”) sono in gran parte dipendenti di case editrici, non lavoratori autonomi. Il loro profilo collettivo è nato in Italia essenzialmente come “corporazione” ed è per questo che sono stati riconosciuti come pieno ordine professionale nel codice civile del 1942. Il Premier di allora era stato un giornalista (sempre a corto di quattrini per sé e per i suoi giornali) e la sua azione di controllo progressivo dei mass media era passata anche attraverso la costante promozione economica, sociale, istituzionale della categoria professionale.
I colleghi di tutte le generazioni successive alla fine del fascismo, naturalmente, ne hanno sempre ripudiato ogni eredità, ma nel 2018 il loro ordine creato nel ventennio sopravvive a fianco di unico organismo di rappresentanza sindacale (la Fnsi). Su questo doppio piedistallo i giornalisti italiani hanno costruito molte cose. La più rilevante è certamente l’identità – sempre rivendicata – di “professionisti della democrazia”: di addetti a un settore “più uguale degli altri” nel servire tutte le libertà costituzionali. Lo hanno fatto all’interno di un reticolo articolato di imprese private e pubbliche (la Rai) e di agevolazioni fiscali, finanziarie, previdenziali. L’ultimo scorcio del ventesimo secolo sembrava aver radicato con successo il sistema-media nel libero mercato, ma la pressione della globalizzazione digitale, unita alla crisi economico-finanziaria dell’ultimo decennio hanno colpito duramente anche le imprese editoriali, l’occupazione e i redditi dei giornalisti e qujndi anche le strutture della “corporazione giornalistica” (anzitutto l’ente previdenziale Inpgi e la cassa sanitaria Casagit).
Non è la prima “resa dei conti” quella in arrivo fra poteri pubblici, proprietari e finanziatori di media e giornalisti, ma è certamente inedita. Nel mondo è in serissima discussione la funzione dell’informazione giornalistica e l’affidabilità delle nuove megastrutture. In Italia, il Governo gialloverde è radicato in un’opinione pubblica che – fra altri disagi politici – ha manifestato anche dubbi e insofferenze verso i modi con cui i giornalisti fanno il loro mestiere. Questi ultimi, al di qua di ogni considerazione, sono obbligati dal cambiamento tecnologico e di mercato a interrogarsi anche sul significato odierno del loro essere “comunità professionale”, fra ordine e sindacato. Anche fra i giornalisti vi sono rider non riconosciuti o tutelati, per molte ragioni. Perché gli editori continuano a retribuire giornalisti tutelati a condizioni non più di mercato: rinunciando spesso a dotarsi di risorse professionali più ricche i competenze digitali. Ma è solo un tema di un discorso certamente lungo, impegnativo, faticoso, prevedibilmengte doloroso. Ma se i giornalisti non lo vorranno o sapranno fare – difendendo, perché no, l’utilità di un ordine professionale – prima o poi avrà buon gioco il governante di turno che una stampa forte e libera non ha mai avuto ragione di gradire.