Dalla canonica del piccolo borgo lecchese di Imberigo, l’arcivescovo emerito di Milano guarda il “cambio d’epoca”, per dirla con le parole di papa Francesco, “con un attitudine di misericordia verso gli uomini e le donne, la loro confusione e le loro fatiche”. Angelo Scola ritorna al Meeting di Rimini dopo anni, adesso che è libero dalle responsabilità pastorali di guida della Diocesi, che il suo predecessore Ildefonso Schuster chiamava il “mestieraccio”. L’occasione è la presentazione del libro-intervista autobiografico realizzato con Luigi Geninazzi, già inviato speciale di Avvenire nell’Est europeo e in America latina (Ho scommesso sulla libertà, ed. Solferino). Scola parla al pubblico del Meeting rispondendo alle domande di Alberto Savorana, portavoce di Comunione e liberazione. Lo fa mettendosi in gioco personalmente, come non ti aspetteresti da un alto prelato, mescolando esperienze di vita vissuta a riflessioni e giudizi sui problemi e la missione della Chiesa nel mondo contemporaneo.
“E’ un’epoca che definirei della post-secolarizzazione: si è interamente compiuto il processo di negazione della possibilità che un Fatto particolare, un Uomo, sia la ragione e il senso di tutto. L’esito finale è il nichilismo, un problematicismo radicale e la censura delle domande e del dialogo sul senso della vita. Occorre rialzare lo sguardo, non soffocare l’attesa di una novità di vita, poterla incontrare e sperimentare. Torno al Meeting dopo un bel po’ di anni in cui non ho potuto farlo e riscontro nella gente che viene qui, magari con i capelli imbiancati, il permanere di questa disponibilità, di questo gusto della novità, che è l’incontro con Cristo”.
Questa affermazione sembra alludere alla necessità di un risveglio, di una riforma della Chiesa. “Certo. Tenendo presente quanto disse Paolo VI, che non ci sarà vera riforma della Chiesa senza santità”.
A proposito di papi, Savorana vuole parlare di quello attuale, che egli definisce “per certi versi inedito”. “Lo stile è l’uomo – prende a dire Scola – e Francesco ha uno stile molto personale e sorprendente per noi. La sua elezione è stata un salutare pugno nello stomaco per noi, membri di chiese europee spesso stanche e poco vivaci. Il ministero di papa Bergoglio è fatto di gesti, linguaggio, esempi, senso di appartenenza al popolo (el pueblo fiel) che costituiscono una novità che dobbiamo imparare”.
Il cardinale coglie l’occasione per definire una “fake news” quanto si scrisse a suo tempo, che fosse entrato in Conclave da papa: “Era evidente a me e ad altri che la stanchezza delle chiese europee, la perdita del senso di presenza di Gesù nella vita concreta dei cristiani, le rendeva non in grado di esprimere un Pontefice. Via, non ho proprio mai pensato di diventare papa”. Scola insiste: “Abbiamo il dovere di imparare la novità che questo papa testimonia, accoglierlo e seguirlo senza riserve. Tocca ora alla fede del popolo fedele latinoamericano accompagnare e sostenere il cammino delle chiese di prima evangelizzazione”.
Non è mistero che nella Chiesa ci sia un filone conservatore che critica il papa e uno progressista che sembra di no. “I primi sostengono che il papa sbaglia perché non dice le cose che pensano loro. I secondi dicono che finalmente c’è un papa che dice le cose che loro sostenevano già 50 anni fa. Io dico che sbagliano gli uni e gli altri, e gravemente”.
Un’altra alternativa che a volte viene posta è quella tra testimonianza e impegno pubblico. Qualcuno dice che la testimonianza non è sufficiente per affermare una presenza pubblica visibile ed efficace. “Dipende da cosa si intende per testimonianza, parola ahimè logorata e poco capita. Diciamo che la testimonianza cristiana non ha nulla a che vedere con l’esibizione di una personale bravura o ineccepibilità. Si tratta di dare testimonianza a Cristo, non a se stessi. Nemmeno la testimonianza è riducibile al buon esempio: è conoscenza adeguata della realtà e comunicazione di verità, con la vita. Essa è inscindibilmente personale e comunitaria”. Per Scola vi è certamente un dovere di testimonianza pubblica, ma anche un dovere di leggere ciò che il momento storico mi domanda, chiedendomi se il gesto che metto in atto sia proporzionato allo scopo che è quello di far camminare il principio che intendo affermare”. Per Scola, ad esempio, l’esplosione di Manif pour tous in Francia è stata “una insorgenza popolare che ha prodotto una testimonianza formidabile”, mentre il tentativo in altri Paesi di organizzare qualcosa del genere non ha avuto lo stesso valore.
Scola nasce mentre l’Italia è in guerra, in una famiglia modesta, con mamma religiosa e babbo socialista massimalista, partigiano combattente, professione autista. Angelo beve cattolicesimo con il latte materno, lo assimila respirando l’aria della terra lecchese. Non perde una messa ma a un certo punto il cristianesimo della tradizione dice poco ai suoi desideri e slanci di adolescente e di giovane. Negli anni del liceo, che Angelo frequenta facendo lavoretti e ripetizioni per pagarsi gli studi, si appassiona alla politica. Cosa sarebbe successo se non ci fosse stato l’incontro con il carisma di don Giussani, nel 1957-’58, difficile dirlo ma certo quell’incontro è il nuovo inizio di tutto. Più avanti raggiunge altri amici in missione giessina in Brasile. Vorrebbe diventare prete e incardinarsi lì. No, non è il caso. Meglio diventare prete normalmente, a Milano. Deve aspettare tre anni. Finalmente entra in seminario a Vengono ma le autorità, causa incomprensioni, lo costringono a lasciarlo. Riceve gli ordini a Teramo. All’inizio degli anni 70 si ammala gravemente per 6 lunghi anni e soffre contemporaneamente per l’emarginazione che subisce dall’establishment ecclesiastico. Studia teologia, dialoga con De Lubac, Balthasar, Ratzinger. Giovanni Paolo II lo fa vescovo a soli 49 anni, il più giovane d’Italia. Poi ai vertici delle Accademie Pontificie, poi Patriarca di Venezia, infine arcivescovo di Milano. Un’odissea, mica una passeggiata.
E tutto è cominciato “da quell’incontro che mi ha fatto riscoprire il battesimo come sorgente di una reale novità di vita. Parlo dell’incontro con il carisma del don Giuss, avvenuto in due tappe: quando lo sentii parlare della gioventù come tensione e mi sorprese perché non parlava da moralista né da clericale, e quando sentii un ragazzo di Gs dire che se Cristo non c’entra anche con la lampadina penzolante dal soffitto del salone, non sarebbe stato cristiano”. Ed ora, a 77 anni “guardo al cammino fatto sin qui e alla realtà che ho attorno – ha confidato – con humilitas, cioè con un’autocoscienza priva di narcisimi, e con un’attitudine di misericordia verso tutti. E prego soprattutto la Madonna che il desiderio di vedere il volto di Dio abbia sempre la meglio sulla uggiosa preoccupazione della morte. Che è lo scivolare dall’abbraccio dei fratelli all’abbraccio del Padre”.