È un fatto che – su una prospettiva di lungo periodo – il Ticino sia tornato a emergere come confine storicamente scomodo e inquietante. Da un lato, il Piemonte sabaudo e “unificatore” d’Italia più di 150 anni fa; dall’altro, il Lombardo-Veneto asburgico “unificato” con quattro “guerre d’indipendenza”, si leggeva nei manuali scolastici d’antan. Dell’ultimo conflitto si ricorderà fra poco più di un mese il centenario della conclusione. La memoria ne sarà celebrata in un’intera Europa in cui la civiltà asburgica – dissolta nel 1918 dopo quasi sette secoli – sta riemergendo. E le omogeneità fra Lombardo-Veneto, Trentino e Alto Adige (senza più trattino), Austria, Ungheria e quindi Germania “bavarese” possono risultare politicamente sancite fra otto mesi in un voto democratico su scala continentale. Non solo lo spitzenkandidat (vero) del Ppe, Manfred Weber, proviene da quest’Europa e la interpreta, ma perfino il primo spitzenkandidat (civetta) del Pse. Maros Sefcovic, ha passaporto slovacco.
In una Ue post-Brexit il baricentro è oggi l’Europa centrale: con buona pace della Francia macroniana, peraltro prototipo usurato di uno Stato nazionale assoluto e laico. E in questo passaggio una delle grandi questioni al centro del dibattito politico italiano ed europeo (“L’Italia vuole/deve/può uscire dall’euro”) potrebbe non essere completamente a fuoco. Una possibile questione alternativa è: “L’Unità d’Italia resisterà nel lungo periodo?”. Questione scomodissima, culturalmente ai limiti del sacrilego. Ma non è ignorando o demonizzando la realtà che la si contrasta.
La stessa Angela Merkel – nata nella Germania dell’Est – ha politicamente sottovalutato i fermenti xenofobi di Chemnitz: riducendosi, infine, alla rimozione (perdente per la cancelliera) del capo dei servizi segreti. Il quale però è caduto in piedi: sarà sottosegretario del ministro degli Interni, Horst Seehofer, un Csu bavarese come Weber. Tra un mese in Baviera si vota (come anche in Trentino e Alto Adige): se la Csu resiste bene alla pressione xenofoba di AfD, la Merkel è salva (per ora); ma aumentano di molto le chance di Weber di essere il prossimo presidente della Commissione Ue (probabilmente portatovi da un cartello elettorale esteso ai popolari ungheresi di Orban e alla Lega italiana). Se invece a Monaco di Baviera l’esito sarà negativo per la Csu, la coalizione di governo Merkel è a rischio subito. E forse anche per questo la Cancelleria di Berlino ha annunciato uno scomodo rimpatrio per 40mila immigrati algerini.
Intanto il Lombardo-Veneto leghista vuol tirar dritto da solo sulle Olimpiadi, spazientito di un Piemonte “diverso” molto più in profondità rispetto alla coloritura politica di una giunta comunale nel 2018. Sembrano lontanissime le Olimpiadi di Torino 2006: conquistate, peraltro, quando Gianni Agnelli era ancora vivo e la Fiat festeggiava il suo centenario, mentre al Comune di Torino governava la solida leadership del Pci (il Pd nacque non casualmente nel 2007 al Lingotto). Il sindaco Chiara Appendino (M5s) ha invece incassato sui Giochi una sconfitta strategica due anni dopo aver battuto alle urne Piero Fassino, epigono di quella tradizione comunista, a Torino e in Italia. È emersa tutta l’improbabilità di un sindaco figlia di un industriale dell’indotto metalmeccanico sostenuta da un elettorato chiazzato dell’estremismo “no-tutto” dei centri sociali torinesi , da sempre strani “poteri forti” in città.
M5s farebbe bene a non archiviare come incidente di percorso l’avvitamento della giunta Appendino: Torino non è Taranto, dove comunque il salvataggio Ilva è stato portato a casa da Luigi Di Maio, anche se copiando il piano Calenda e rinnegando molte delle premesse elettorali.
A Milano, nel frattempo, anche il sindaco Beppe Sala sembra in asse con il sottosegretario alla Presidenza, Giancarlo Giorgetti, a favore di una possibile candidatura olimpica non più “statal-nazionale” (lontano anche dalle burocrazie romane del Coni). Non manca, tuttavia, all’orizzonte una possibile svolta a effetto: il rientro di Torino in partita attraverso la finestra della Regione.
Potrebbe essere Sergio Chiamparino – governatore del Piemonte – a raccogliere una maggioranza utile a offrire a Milano e Cortina le garanzie che il Comune di Torino non è riuscito a dare. Chiamparino – ultimo buro-sauro del Pci ancora in attività – ha già annunciato di volersi ripresentare alle prossime regionali, forse in election-day con le europee. Non lo farà più sotto le insegne del Pd, viceversa: il Pd attuale (in attesa di vedere se sopravviverà fino alla primavera) è solo una fra le tante sigle a sostegno di una lista civica “Alleanza per il Piemonte”. La crisi-Appendino e la tradizione fragile del centro-destra in Piemonte non fanno che accrescere le possibilità di riconferma di Chiamparino. Ma sarebbe – nel caso – una vittoria “di Chiamparino”: di un centrosinistra “vecchio e nuovo”, ma diverso e distante dal Pd “romano”, qualunque cosa significherà allora il marchio Pd. Sarebbe un nuovo Chiamparino molto “federale”, a capo di un Nord-Ovest politicamente competitivo con il Nord-Est leghista, anche se capace di alleanze su grandi progetti come le Olimpiadi (anche se non più progetti-Paese).
Chissà perché i vertici del Pse si disinteressano di quello che sta accadendo in Piemonte: dove fra pochi mesi qualcuno potrebbe dire di aver battuto in campo aperto entrambi i partner del governo giallo-verde. In un voto importante, in un pezzo importante di Italia “europea”.