Le forze che ci salvano dalla crisi

Si continua a pensare che anche l'economia sia dominata da forze che misteriosamente risolvono le crisi. In realtà sono le decisioni degli uomini a fare la differenza. FERNANDO DE HARO

Sono trascorsi sei anni dal famoso whatever it takes di Mario Draghi che ha salvato l’euro. Il Presidente della Banca centrale europea di fatto correggeva la posizione dei suoi predecessori e adottava, con anni di ritardo, la politica monetaria che aveva salvato gli Stati Uniti dalla Grande Recessione: tassi di interesse negativi e un ambizioso programma di Quantitative easing. Tutte le munizioni possibili per aumentare la liquidità e risolvere i problemi dei bilanci bancari. La paura dei tedeschi di un aumento dei prezzi a causa di un eccesso di domanda veniva messa da parte. Tra pochi mesi Draghi lascerà la Bce, l’inflazione non è comparsa da nessuna parte, l’aumento dei tassi di interesse sembra dietro l’angolo e si parla del modo migliore per ritirare gli stimoli.

La parte più dura della Grande Recessione è alle spalle e ora la digitalizzazione è diventata una fonte di ottimismo. Si teme la comparsa di nuove bolle, ma non se ne vuole parlare. Gli ultimi dieci anni hanno lasciato numerose ferite, la consapevolezza che la deregolamentazione è stata un grave errore, ma il dibattito sulla natura del mercato, sulle forze che muovono economicamente la storia, non è stato aperto, restano ancora lontane dalle forze che rendono felice l’uomo. 

Nonostante quanto sofferto durante gli anni della crisi più grave dalla Seconda guerra mondiale, l’homo oeconomicus è ancora in piedi, con la sua razionalità unidimensionale, guidata solamente dall’interesse sia in termini di consumo che di produzione, protagonista di un mercato anonimo. Le forze economiche, contrariamente all’esperienza, continuano a ritenersi anonime, sconnesse dalle relazioni umane che le sostengono.

C’è qualcosa da correggere, sì, ma è esterno. Forse una nuova sintesi dopo tutto quello che è successo. C’è stata una maggiore vigilanza, una più precisa regolamentazione dei mercati, ma senza un ripensamento antropologico. La Quarta rivoluzione industriale sembra rendere superflua questa correzione, anzi, la digitalizzazione alimenta nuovamente l’utopia dei mercati “perfetti” o “quasi perfetti”. I Big Data, la blockchain e tutti i nuovi strumenti metteranno (di fatto già lo fanno) a disposizione del consumatore una quantità enorme di informazioni che sposta il potere effettivo dal lato dell’offerta al lato della domanda. 

Il vecchio sogno delle decisioni “razionali”, guidate dall’interesse del singolo, con a disposizione un oceano di dati che permettono di decidere con una nuova presunta trasparenza. La mano invisibile, di nuovo in auge, almeno tra i teorici, per raggiungere il miracolo della ripartizione delle risorse scarse e per costruire un bene superiore in totale anonimato, partendo dagli egoismi privati. 

Questa rinascita della teoria classica e neoclassica e il suo modo di spiegare le “forze che muovono la storia” dimenticano che tutto questo flusso di informazioni, teoricamente a disposizione delle scelte “razionali”, è in realtà utilizzato da un nuovo potere di mediazione o di strumentalizzazione delle grandi aziende (Google, Amazon, Facebook, Apple e altri) con una capacità di dominio finora sconosciuta.

La comprensione delle forze economiche che muovono la storia, dopo la Grande Recessione, richiede qualcosa di più di una nuova sintesi neoclassica come quella elaborata da Keynes dopo la crisi del ’29. Ci vuole senza dubbio regolamentazione, uno Stato e un settore pubblico che, nella misura consentita dalla globalizzazione, sia un elemento di compensazione. Ma è necessario riconoscere che i programmi di espansione monetaria non sono stati (o almeno non solo) quelli che ci hanno portato fuori dall’ultima crisi. È stata la forza che muove davvero la storia, che coincide con ciò che rende felice l’uomo, il fattore relazionale, i desideri socializzanti. 

Nonostante opere come quelle di Amartya Sen, che sottolineano il peso della simpatia o dell’impegno nelle decisioni economiche, il discorso del XVIII secolo ha continuato a ridurre la forza storica a una somma di interessi. Non è scientifico continuare a identificare la ricerca di felicità economica con l’utilità. Nell’operatività del mercato sono decisivi fattori intangibili, apparentemente inutili, come la fiducia, la spinta all’innovazione, la volontà di ampliare il mondo relazionale, di fare con l’altro. Tutte dimensioni che escono dall’anonimato e che introducono la dimensione della gratuità, persino nell’ambito più profit. Il miracolo non è che l’interesse particolare si trasformi in un successo generale, ma che l’altro mi venga incontro, anche quando lo fa per comprare o vendermi qualcosa, e che attraverso l’attività comune appaia la grandezza di ciò che si condivide, qualcosa di umanamente inimmaginabile (anche qui non vige la legge della necessità) e umanamente (non solo monetariamente) conveniente.

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