In questi primi mesi di governo, sondaggisti e opinionisti hanno sancito il gradimento degli italiani per il protagonismo di Matteo Salvini e della sua linea sovranista. Siamo di fronte alla consacrazione di un leader per gli anni a venire? Non è tutto oro quello che luccica.
Certamente colpisce il fatto che la Lega sia passata in poco tempo dal 4% al 17% reale e poi al 30%, secondo gli ultimi sondaggi. Non bisogna dimenticare però i consensi “bulgari” di cui ha goduto ad esempio Silvio Berlusconi, oggi arrivato a un misero 7%. Oppure al “salvatore della patria”, Mario Monti, che è rimasto tale per poco più di un anno. Ma soprattutto bisogna pensare a Matteo Renzi che alle elezioni europee del 2014 ottenne più del 40%.
Nel lungo periodo non bastano notorietà e successo ottenuti cavalcando paure ed emozioni: senza intervenire sui problemi importanti del Paese il passo tra l’altare e la polvere può essere brevissimo.
Nella compagine di governo in realtà ci sono anche persone, come Giancarlo Giorgetti, preparate, competenti e capaci di dialogare con tutti. Insomma, persone che hanno più il problema di lavorare che di aizzare la folla per acquisire notorietà.
Ma il problema è che i ministeri economici sono in mano, oltre che a Giovanni Tria, scelto come garanzia per le istituzioni italiane ed europee, ai 5 Stelle (Sviluppo, Lavoro, Welfare, Sud, Infrastrutture) che, finora, insieme a una legittima anima ambientalista, ne hanno mostrato una significativamente luddista.
C’è quindi da chiedersi: se questa anima prenderà piede, come reagiranno i governatori leghisti del Nord e molti degli elettori leghisti del ceto produttivo, preoccupati di vedere disatteso il piano Industria 4.0, di non essere tagliati fuori dalla nuova “Via della seta” tra Pechino e Lisbona, di intercettare le merci che attraversano il canale di Suez e potrebbero passare per l’Italia se solo avessimo infrastrutture adeguate?
E come potrà essere contento chi ha votato Lega se Firenze non avrà l’alta velocità, se non si renderà la rete digitale adeguata a un Paese sviluppato o se si continuerà a pagare l’energia più che altrove per mancanza di gasdotti e gassificatori, se usciremo dalla grande industria perdendo la produzione di acciaio, portando al fallimento l’Ilva?
Anche la promessa della flat tax non può soddisfare da sola il ceto produttivo, perché non affronta in modo strutturale il problema dello sviluppo.
E ancora, sorprende nell’assetto del vicepremier l’assenza di qualunque riferimento a quel federalismo fiscale che con il criterio dei costi standard sanzionerebbe gli enti locali inefficienti e clientelari e premierebbe quelli virtuosi, incidendo positivamente sulla finanza pubblica molto più che l’abolizione dei vitalizi.
E, last but not least, sorprende che il primo provvedimento sull’istruzione a conduzione leghista sia stato l’abolizione della chiamata diretta dei professori, in netto contrasto con l’autonomia scolastica difesa fino a ieri anche dalla Lega.
Alla fine, persino un problema come quello dei migranti, trattato con scelte muscolari, non potrà essere affrontato in modo utile. Serve un nuovo assetto delle regole, visto che il trattato di Dublino si occupa solo dei profughi, che sono il 7% dei migranti, e ignora il 93% che sono migranti economici. Per farlo occorre lavorare sottotraccia e senza sparate propagandistiche. Sempre che si creda ancora che la politica è l’arte del possibile e del compromesso e non l’arte della propaganda.
Se questo non avverrà, fra non molto, anche twittare sui migranti e fare la voce grossa sarà solo un boomerang.