“In un mondo in cui non si sa a chi credere, lo spaccone e il bugiardo possono essere persuasivi come chiunque altro”. Inquietante ma vera questa affermazione del giornalista e studioso inglese Mark Thompson: ognuno può verificare in tre secondi che almeno qualcuno gli viene in mente. Qualcuno del mondo politico, probabilmente. Thompson è stato direttore news della Bbc, docente di linguistica e comunicazione, ed attualmente è consigliere di amministrazione del New York Times. Dagli anni 80 in poi ha seguito da vicinissimo la grande politica, da Reagan e Putin e Trump, dalla Tatcher a Theresa May, sulle due sponde dell’Atlantico. Nel suo volume Enough said. What’s Gone Wrong With the Language of Politics (uscito in italiano da Feltrinelli con il titolo: La fine del dibattito pubblico), Thompson osserva la crisi della responsabilità politica, del reciproco rispetto, della civiltà quotidiana nelle democrazie occidentali, constata uno spirito nichilista all’opera in una politica “che cerca solo di dividere” e sostiene che un importante fattore esacerbante è il modo con cui è cambiato, in peggio, negli ultimi decenni, il nostro linguaggio pubblico.
Esso, in estrema sintesi, esalta l’impatto emotivo ed immediato a scapito della comprensione e della profondità, svilisce il dibattito sociale e politico ed erode un pilastro fondamentale della democrazia rappresentativa. Inutile fare troppi esempi: basta il telecomando della tv, o una sbirciata agli insultatoi di Facebook o alla sordità reciproca di due (non) dialoganti al bar. Sino al vaffa come sintesi del programma di un movimento politico antipolitico. Naturalmente il nuovo che avanza sa adottare al volo i trucchi retorici della vecchia politica (verità parziali, silenzi o sorvolamenti, distrazioni dal problema, correzioni in corsa dei vocaboli, ecc.) quando dall’opposizione passa alla stanza dei bottoni.
Seguiamo ancora per un po’ alcuni spunti che Thomson ci offre. Innanzitutto le origini profonde del fenomeno, cioè la moderna cultura del sospetto, l’ermeneutica del sospetto per usare le parole di Paul Ricoeur che, già nel 1970, ne indicava i “maestri” in Marx, Nietzsche e Freud. Il risultato nel linguaggio? “Sarcasmo, cinismo, diffidenza verso qualsiasi autorità, una tremenda inclinazione a ridicolizzare”, annotava ventitré anni dopo lo scrittore David Foster Wallace. Poi la faccia tosta di tanti leader politici. Poi le tecniche del marketing che da un po’ dominano la comunicazione politica (“non ti aiuto a capire, ti spingo a decidere”). Poi la perdita di autorevolezza della scienza in campo pubblico: tra ermeneutica del sospetto e dittatura dell’opinione, puoi mettere in un talk show una velina a confronto con un Nobel della medicina, e non è scontato chi la gente seguirà di più. Si pensi al caso no-Vax. E poi, naturalmente, il digitale, che ha favorito, nei politici, nei media e nella gente comune il dominio dell’opinione sulla conoscenza, i giudizi massimalisti e immediati e sovente rancorosi. La complessità oggettiva dei problemi, segnatamente quelli di un’amministrazione pubblica, viene nascosta in nome della brevità, dell’impatto emotivo, del consenso immediato mentre il linguaggio dei tecnocrati resta oscuro. Un effetto l’abbiamo visto anche in Italia: si allarga la forbice tra il picco di aspettative e il fondo della realtà, così si rottama lo spaccamontagne che ci ha alla fine delusi e si affida la speranza a un nuovo campione della promessa. Come tanta gente col naso e gli occhi puntati allo schermo di una Lottomatica.
Lo diceva già Orwell, che il caos politico è collegato alla decadenza del linguaggio; e T.S. Eliot vedeva il tendersi, logorarsi e falsificarsi delle parole. Era l’epoca dei totalitarismi, e la presunta “autenticità” (schiettezza, novità, forza decisionale, capacità di galvanizzare) del dittatore, l’empatia, diventava discriminante, molto più convincente del logos, dell’argomentazione. Oggi l’autenticismo domina la comunicazione politica e deo gratias che non ci sono gli Stalin e gli Hitler al potere.
Questo accade, in una parola: opinione e pregiudizio al posto della conoscenza, riduzione della ragione e dell’affettività, inceppamento del dibattito pubblico costruttivo.
Naturalmente non è sempre così. Ci sono politici e giornalisti che resistono eroicamente alla marea, o almeno ci provano. E poi persone, giovani e meno giovani, circoli, realtà associative e movimenti in cui il bisogno di conoscenza e di dialogo è in vari modi preservato e alimentato e la fatica connessa accompagnata in un lavoro paziente. Trattasi di educazione di popolo. Bene. Perché un linguaggio ragionevole nasce, dice Thompson, da un “altruismo reciproco” e da “pubblico critico” (per esempio quello del Meeting di Rimini, dico io: che accoglie tutti, ascolta testimoni, scienziati, economisti, politici, cardinali, artisti, prende nota, prenota mostre da esibire localmente, cerca pazientemente di farsi un’opinione ragionata). Infatti, conclude Thompson, “la ripresa non dipende dalla vittoria di un’ideologia su un’altra, né da ponderati inviti alla riforma, ma da un volgere della marea nella cultura e nella società… Prima o poi dovrebbe spuntare un nuovo linguaggio della persuasione ragionevole. Solo che non sappiamo ancora quando. E allora cosa potete fare durante questo incerto interim? Aprite le orecchie. Usate il giudizio. Pensate, parlare, ridete. Squarciate il baccano”. Perfetto. Buon Meeting.