Quando brucia l’anima di un popolo

Resta ben poco del resta del grande Museu Nacional di Rio de Janeiro. Un'istituzione lasciata a se stessa, senza fondi. Ma la memoria non si compra. GIUSEPPE FRANGI

Piangevano le persone che ieri, dopo che il rogo è stato finalmente domato, hanno potuto avvicinarsi a quel che resta del grande Museu Nacional di Rio de Janeiro. Piangevano in tanti mentre facevano una lunghissima catena umana al parco della Quinta de Boa Vista, davanti allo scheletro del grande edificio scoperchiato dalle fiamme. Piangevano e insieme protestavano perché questo disastro ha portato in luce le incredibili inadempienze delle autorità pubbliche rispetto a questo scrigno della memoria nazionale brasiliana. Per il 2018 era stato preventivato un contributo nazionale di 205mila reais, la stessa cifra stanziata per la manutenzione delle 83 auto di servizio della Camera dei deputati. Solo un decimo delle sale erano visitabili al momento del disastro, che ha avuto queste devastanti dimensioni perché l’impianto antincendio era sprovvisto d’acqua e i vigili del fuoco hanno dovuto attingerla da un lago vicino.

Il Museu non custodiva capolavori eclatanti. Era invece un’immensa raccolta di reperti che percorrevano la storia del Brasile, a partire da quello più celebre, il cranio di Luzia, ritrovato nel 1974 e datato a 11.500 anni fa: uno dei più antichi resti umani ritrovati nel continente americano. Il Museu era un’istituzione simbolo, che proprio quest’anno compiva 200 anni; era stata fondato quattro anni prima della dichiarazione di indipendenza, che venne firmata proprio tra queste sale. 

Ora tutto questo è andato in cenere e c’è chi ha detto l’effetto è quello di una “lobotomia della memoria” per il popolo brasiliano. Uno degli artisti più popolari del paese, Vik Muniz, con amarezza ha scritto sulla sua pagina Facebook: “Non c’è peggior terrore e tristezza che non poter ricordare ciò che sei già stato e amavi essere, delle cose, persone ed eventi che ti hanno fatto essere ciò che è. È estremamente triste pensare che un Paese si costruisce sulla sua storia, e invece d’ora in poi il nostro futuro dovrà essere eretto sulle ceneri”. 

La vicenda del Museu Nacional si presta riflessioni che vanno oltre i confini del Brasile. Il Museu era un’istituzione pubblica abbandonata a se stessa, vittima delle sue dimensioni e della quantità di reperti che custodiva (si parla di ben 20milioni). Come tale veniva vissuta come una zavorra, al paragone del non lontano Museo del Domani, fondato nel 2015 con la partecipazione di una fondazione che raccoglie alcune multinazionali presenti in Brasile: quel museo ha ricevuto nel 2017 stanziamenti pubblici 24 volte superiori al Museu Nacional (a onor del vero il personale di quest’ultimo è a carico dello Stato, mentre il museo del Domani ha a libro paga i propri dipendenti).

Cosa insegna questa vicenda? Che oggi la cultura viene valorizzata solo quando è capace di produrre performance. Un discorso che non vale solo per il Brasile ma vale ad esempio anche per il nostro paese, dove i musei vengono misurati solo attraverso i numeri, senza considerare quel grande e prezioso compito che corrisponde alla tutela e alla custodia. 

La custodia è poco spettacolare e performativa; si presta poco ad essere materia di propaganda o di campagne politico-mediatiche. Ma è qualcosa che, preservando la memoria, ha intimamente a che fare con l’anima di un popolo, come dimostra il pianto dei brasiliani davanti alle rovine del “loro” museo. Allo stesso modo in tanti si sono sentiti feriti dal crollo del tetto della chiesa di San Giuseppe dei Falegnami a Roma, sopra uno dei luoghi più importanti della memoria cristiana, la prigione di Pietro e Paolo. Anche in questo caso vittima di un sistema che si è fatto bello con le performance dei soliti grandi musei da bluckbuster e intanto ha tolto risorse alla tutela e alla custodia. Senza capire che la memoria è preziosa quanto un capolavoro. I brasiliani lo stanno sperimentando sulla loro pelle.

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