Non è raro che nel primo incontro con il lavoro un giovane resti ammaccato dall’urto di una realtà estranea alle sue aspettative. Ma anche a quarant’anni puoi affrontare la giornata incarognito come un bufalo perché tu saresti bravo ma il capo ti tarpa le ali. O a sessanta cadere in depressione perché i nuovi padroni ti fanno scegliere tra demansionamento o niente.
Se il lavoro fosse una disgrazia da riservare allo schiavo, nessuno si farebbe male. Invece è proprio vero che il lavoro è un bisogno dell’uomo libero, che contiene il desiderio della piena realizzazione di sé. Eppure non sempre va per il verso giusto. Dunque esiste un’alternativa al restare gibollati, imbufaliti o demoralizzati?
In un recente dialogo fra amici di varie età sono state raccontate tre storie di difficoltà nel lavoro, i cui protagonisti, combinazione, sono sui venti, quaranta e sessant’anni. Piccole drammatiche vicende di normale quotidiana, intendiamoci, ma con dentro un raggio di luce.
Vent’anni, anzi quasi. Dell’Est Europa, orfana, adottata. Dopo la scuola media sogna di fare la receptionist di hotel o l’operatrice di un’agenzia di viaggi. Consegue il diploma di “assistente turistico”, con la fatica e la soddisfazione che implicherebbe la conquista del K2. Ma proprio ora, tra il sogno e la mossa per attuarlo, si intrufola un dato di realtà. Un neonato “green bar food & drinks” cerca ragazza per il sabato e la domenica. “Perché non io?”. Fatto sta che approccia con apertura e impegno la circostanza imprevista, e ben presto scopre che fare la barista le piace, ma proprio tanto. La realtà ha fatto emergere un suggerimento, e lei l’ha colto con l’apertura che dà non il sogno ma il desiderio del cuore.
Quarant’anni. Scienziato dei materiali. Raffinata competenza mortificata dalle carenze tecniche e relazionali dell’ambiente. All’inizio lui la prende male, prova avversione e la giornata è una cappa di piombo. Per fortuna non è solo. Ha amici di quelli veri, che lo aiutano a irrobustire la consapevolezza di essere persona, un io irriducibile che non può rinunciare a stare di fronte alle strettoie con una domanda, un’ipotesi, o una coscienza, di significato. Scopre così che la difficoltà non va respinta come ostile, ma attraversata come possibilità di imparare ancora di più e più utilmente.
Sessant’anni. Dirigente d’azienda. Bravo e stimato, da un bel po’ di anni. Cambia il padrone e si porta i suoi. “Caro ingegnere, si accomodi pure su questo strapuntino dell’Ufficio Fantozzi” (ruolo banale e stipendio, ultraridotto). “Se preferisce, si accomodi pure fuori dall’azienda”. L’ingegnere va sull’orlo dell’esaurimento. Anch’egli però non è solo. Ha amici, e una moglie, che gli vogliono bene. Gli fanno sentire indubitabilmente che il valore della sua persona non sta nella prestazione, “ma — sono le sue parole — in Dio che chiama per nome attraverso le circostanze”. Trova e accetta un nuovo lavoro, in tutt’altro contesto professionale e alquanto meno remunerato. E ne è contento, perché sente realizzata anche qui, pienamente, “la sua vocazione”.
Qualcuno potrebbe pensare che il succo di questa, come nelle precedenti due vicende, sia il combinato disposto tra lieto fine e rassegnazione. Il succo sta invece nella consapevole, o anche no, apertura all’infinito che il bisogno umano ultimamente comporta. E nella grazia di una compagnia vera, che stia non sul livello del cazzeggio ma di quel desiderio, che si può chiamare anche senso religioso. Trattasi di amici veri. Compresa, putacaso, una moglie.