In questa estate, caratterizzata dal tema del lavoro, dal Decreto dignità e dalle conseguenze che questo sta generando in tema di rinnovi dei contratti, dai possibili e incerti effetti di riduzione della precarietà o diminuzione dell’occupazione, nei giorni scorsi l’amico e professore Mezzanzanica ha scritto su queste pagine un interessante approfondimento sulle dinamiche nel mondo del lavoro. Uno dei temi da lui trattati, a mio avviso il più urgente nel contesto socioeconomico attuale, riguarda la gestione delle transizioni occupazionali.
Sappiamo tutti perfettamente che un giovane che trova il suo primo lavoro al giorno d’oggi (agosto 2018) cambierà diversi luoghi di lavoro, tipologie contrattuali, settori merceologici nell’arco della sua vita. Anche il miglior contratto a tempo indeterminato non potrà sottrarre il nostro giovane dal dover affrontare un cambiamento lavorativo. La questione di come vengono governate le transizioni occupazionali risulta quindi centrale. Governare le transizioni significa fare in modo che il cambiamento non venga vissuto come un trauma: tutto ciò che non conosciamo e che quindi non controlliamo genera timore e insicurezza, in una parola “precarietà”.
Per non subire queste trasformazioni, il primo fattore di successo è non essere soli nell’affrontarle. Occorre quindi come prima cosa un assetto che favorisca questa presa in carico e orienti le scelte di coloro che hanno perso un’occupazione. Tali attività dovrebbero essere sostenute già nel periodo scolastico, così da aiutare ed educare i giovani a conoscere le dinamiche del mondo del lavoro. Molte persone cambiano lavoro non per costrizione, ma per convenienza, avendo una professionalità tale che gli permette di muoversi agevolmente nel mercato al fine di accrescere le proprie competenze, esperienze e conoscenze. Loro rientrano nella cerchia degli altamente qualificati, che non necessitano di aiuto, ma anzi sono i “cacciatori di teste” a ricercarli; oppure sono specializzati in settori all’interno dei quali conoscono perfettamente i “codici di accesso” (modalità, forme, criteri, ecc.) ai posti di lavoro più rinomati. La maggioranza delle persone ha però bisogno di un aiuto, sia per ricollocarsi, ma soprattutto per restare occupabili nel mondo del lavoro.
Per ricollocarsi sono necessari degli strumenti di protezione sociale, di welfare. È necessario accelerare lo sviluppo di una reale integrazione tra soggetti pubblici (Centri per impiego, agenzie regionali e metropolitane) e privati (Agenzie per il lavoro ed enti di formazione), attuando quella rete istituzionale che deve essere necessariamente uniforme sul territorio nazionale. Qui uno dei grandi errori dell’attuale Governo, che piuttosto che condannare i soggetti privati (in alcuni casi anche giustamente) e contrapporli ai Centri per l’impiego li dovrebbe sfidare, per esempio partendo dalla questione meridionale: se il privato vuole pari dignità con il pubblico avvii una campagna straordinaria per il Sud, aprendo filiali, sostenendo iniziative di promozione ed educazione al lavoro.
Serve un moderno sistema di welfare, in un mix quindi di politiche attive finalizzate alla ricollocazione e politiche passive di sostegno al reddito, sempre legato all’effettivo coinvolgimento in percorsi professionalizzanti per l’inserimento lavorativo, dove gli attori che assistono il disoccupato sono impegnati in una concorrenza virtuosa, sorretta da politiche pubbliche e dalle migliori esperienze contrattuali della bilateralità.
Tutto questo potrebbe non essere sufficiente. Sulla carta è un bel modello, forse il migliore, ma manca chi sostiene il singolo uomo a rialzarsi dopo un fallimento o una delusione. Perché perdere il lavoro ha sempre una dimensione umana drammatica, data dell’importanza antropologica che riveste il lavoro, dal suo essere fattore di costruzione, realizzazione personale e sociale, oltre all’offrire senso e scopo all’agire quotidiano. Quindi chi perde il lavoro deve essere sostenuto a rialzarsi, a rimettersi in gioco, facendo l’enorme fatica spesso del ricominciare e intraprendere un percorso a lui sconosciuto, perché raramente qualcuno prepara alla “ricerca del lavoro”. Per fare questo è la società civile – i corpi intermedi come sindacati, associazioni, movimenti (meglio se in collaborazione tra di loro, perché le fatiche se condivise pesano meno) – la più prossima a rispondere a questo bisogno. Perché prima di essere un servizio c’è un “stiamo insieme”, dove la ricollocazione è solo l’esito di un percorso, ma prima c’è il riconoscimento e l’apprendimento di un metodo per affrontare l’assenza di occupazione.
Su questo tema come sindacato stiamo riflettendo e sperimentando le modalità più pertinenti per dare risposta a questa urgenza. La strada maestra rimane quella di mettere al centro la persona, favorendo una continuità associativa nelle transizioni lavorative, non lasciandola sola nel momento del bisogno, ma anzi prodigare il massimo sforzo per tutelarla all’interno di una rete sociale.
L’ultima questione è come sostenere l’occupabilità. Ormai è assodato che le competenze più richieste sono le soft skills, in quanto i processi produttivi sono talmente specializzati e specifici che una competenza tecnica maturata in un luogo di lavoro difficilmente può essere automaticamente replicata in altri contesti, oltre al fatto che la stessa conoscenza ha ormai un’elevata velocità di obsolescenza, quindi siamo chiamati a imparare costantemente. Le soft skills, ovvero la capacità di apprendere in continuazione, generare creatività, applicare problem solving, gestire le emergenze e lo stress, sviluppare l’attitudine alla leadership e la propensione al lavoro in squadra (che non sono in conflitto, perché essere leader vuol dire coinvolgere altri nel perseguire lo stesso obbiettivo condiviso) sono caratteristiche da migliorare e tenere allenate.
Come fare? Un consiglio non richiesto in questa calda estate? Fate figli e andate al mare con loro, possibilmente con altri amici con bambini (meglio se simpatici). Vi assicuro che in spiaggia avrete tantissime occasioni per gestire emergenze, affinare la vostra capacità di problem solving con sabbia infilata in ogni dove e utensili da lavoro disseminati presso i vari ombrelloni; non mancherà poi la necessità di condividere con il team di genitori i programmi della settimana, suddiviso minuziosamente in sveglia, colazione, castelli di sabbia, giro sul fenicottero gonfiabile, doccia, altra sabbia, ancora sabbia, bagnetto (senza fenicottero), doccia, preparazione pasto, pasto, separazione dei bambini mentre si picchiano, riposino, merenda, sabbia, fenicottero, doccia, litigata con famiglia no vax vicina di ombrellone, sabbia, bagno, doccia, cena, pulizia, pigiama e tutti a dormire; infine bisogna sempre mantenere il giusto equilibrio nella valutazione/punizione dei disastri commessi dai propri figli e da quelli degli altri, al fine di mantenere la pace sociale, nonché il senso di giustizia ed equità.
Quindi, il modo migliore per sviluppare le soft skills è quello di non evitare i problemi e pretendere di avere tutto sotto controllo, perché tanto la realtà prima o poi si impone in modo diverso e inaspettato, dando occasioni di crescita inimmaginate, nel lavoro come in famiglia. Il modo migliore per affrontarla è innanzitutto con umanità, quindi meglio se non si è da soli, ma con qualcuno che condivide e accompagna con responsabilità i propri bisogni.